Yukio Mishima (14 gennaio 1925 – 25 novembre 1970) ha vissuto come ha scritto: sospeso tra la ricerca del sublime e la tragedia inevitabile. Scrittore, esteta e samurai moderno, ha incarnato la fusione tra la tradizione giapponese e la modernità nichilista, esplorando il conflitto tra passato e presente, bellezza e morte. In occasione del centenario dalla sua nascita, ripercorriamo la sua vita straordinaria: dagli esordi letterari con "Confessioni di una maschera" alla milizia privata Tatenokai, fino al gesto estremo del seppuku...
A 100 anni dalla nascita, un viaggio nella vita (e nell’opera) di Yukio Mishima (pseudonimo di Kimitake Hiraoka), scrittore, drammaturgo, saggista e poeta giapponese, capace di incarnare l’estetica della tradizione samurai e di fonderla con un nichilismo moderno e sferzante.
Nato a Tokyo il 14 gennaio 1925, l’autore si è affacciato fin da giovanissimo al mondo della scrittura grazie alla nonna, rigida nobildonna che lo introdusse precocemente alla cultura classica e all’arte. A questo primo e precoce avvicinamento segue una rapida ascesa nell’Olimpo dei più importanti autori giapponesi: Mishima è infatti diventato presto uno degli intellettuali più influenti del suo tempo, capace di gettare un ponte tra il passato tradizionale del Giappone e la modernità tumultuosa del dopoguerra.
Un curriculum affascinante e controverso, quello di Yukio Mishima, un’anima tormentata – sospesa tra il sublime e il tragico – che ha lasciato un’impronta indelebile nella letteratura giapponese del Novecento.
In occasione del centenario dalla sua nascita, esploriamo la vita e le opere principali dello scrittore, capace di dar vita a classici intramontabili della letteratura come Confessioni di una maschera (riproposto ora in una nuova veste da Feltrinelli, con la traduzione di Andrea Maurizi) e di infiammare l’opinione pubblica con idee vorticose e gesti estremi: uno su tutti la sua morte avvenuta secondo il seppuku, il suicidio rituale dei samurai.
Gli inizi e l’ascesa di un genio letterario
Yukio Mishima nasce in una famiglia della classe media giapponese: un contesto lontano dai fasti dell’élite intellettuale, ma ricco di tradizioni e disciplina. Fin dalla tenera età il giovane rivela un talento precoce (quasi “alieno”) per la scrittura, interpretando le parole come il suo naturale rifugio o, a seconda delle occasioni, come il suo personalissimo campo di battaglia.
Il suo immaginario si plasma tra le pareti di una casa austera, dove la rigida nonna Natsuko – una donna autoritaria e profondamente legata ai costumi antichi – si occupa della sua educazione. Reduce da un doloroso matrimonio, la donna dedica asfissianti cure al giovane Kimitake (sostituendosi di fatto alla madre), tenendolo isolato dagli altri bambini e allontanandolo dai giochi spensierati dell’infanzia: una brusca immersione in un mondo fatto di storie tradizionali e mitologia. Un isolamento forzato che, benché doloroso, diventa il terreno fertile per l’immaginazione.
Complici le alte aspettative familiari e l’educazione “marziale” ricevuta, Mishima intraprende un percorso accademico di grande rigore, laureandosi in legge presso l’Università Imperiale di Tokyo. Ma sotto il peso di un percorso a dir poco prestigioso ribolle una tensione creativa insopprimibile. Dopo una breve (e frustrante) carriera presso il Ministero delle Finanze – una parentesi che dura meno di un anno – il giovane, imprigionato in un mondo di calcoli e scartoffie, decide di abbandonare la stabilità per inseguire finalmente la sua vocazione letteraria.
La svolta arriva nel 1949, quando pubblica Confessioni di una maschera, l’opera che lo catapulta sotto i riflettori del panorama culturale giapponese. Il romanzo, audace e profondamente personale, si rivela uno spartiacque nella sua carriera e nella letteratura del dopoguerra. Tra queste pagine, Mishima mette a nudo le contraddizioni più intime del suo essere: il tormento di una sessualità repressa, il conflitto tra desiderio e convenzioni sociali, e il costante sforzo di indossare una maschera per nascondere la propria vera identità.
Il linguaggio – elegante e al tempo stesso crudo – crea un ponte tra il personale e l’universale, dando voce a un disagio che molti non osano esprimere. Confessioni di una maschera, da questo punto di vista, non è solo un successo editoriale; è un manifesto della complessità umana, una dichiarazione d’intenti che consacra Mishima come uno dei talenti più luminosi (e controversi) della letteratura giapponese.
Un libro che, proprio in virtù di questa natura programmatica e generazionale, mira a veicolare una determinata estetica, in bilico tra modernità e tradizione…
Estetica, disciplina e tradizione
Mishima non è stato solo uno scrittore, ma anche un esteta e un perfezionista. Affascinato dalla bellezza, dal corpo e dalla disciplina, ha curato maniacalmente l’aspetto fisico attraverso il bodybuilding e le arti marziali (in particolare il kendo, l’antica scherma giapponese): un’ossessione per la forma e l’armonia che lo ha spinto a plasmare il proprio corpo come una vera e propria opera d’arte. Un culto del fisico, iniziato dopo un viaggio in Grecia datato 1951, occasione in cui Yukio Mishima ritorna agli ideali fasti classici della bellezza antica.
Da qui la sua vita – romanzo dai mille colpi di scena – si trasforma definitivamente in un teatro di contrasti: da un lato l’uomo colto e sofisticato, autore di libri dal raffinato ed eclatante imprinting contemporaneo; dall’altro, il samurai moderno, fedele alla tradizione e al Bushidō, il codice d’onore dei guerrieri.
Questa dualità emerge con forza nei suoi romanzi: in particolar modo, la tetralogia Il mare della fertilità – composta da Neve di primavera (edito Feltrinelli, con la traduzione di Andrea Maurizi), A briglia sciolta (Feltrinelli, con la traduzione di Lorenzo Costantini), Il tempio dell’alba e La decomposizione dell’angelo (editi Feltrinelli, con la traduzione di Emanuela Ciccarella) – rappresenta il suo testamento letterario: un affresco epico che esplora la decadenza morale e spirituale del Giappone moderno attraverso la reincarnazione e il destino.
Per Mishima, letteratura, estetica e vita non possono vivere separatamente: ogni suo gesto e ogni sua opera sono intrisi del senso tragico della bellezza e dell’onore, culminando talvolta nella tragedia epica che suggella la coerenza estrema del suo pensiero.
L’ossimoro della modernità
Un piede nel passato e uno nel presente: ecco come ha vissuto tutta la sua vita Yukio Mishima. Un contraddittorio equilibrio che è destinato a spezzarsi (e non sanarsi più) con la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale: “l’americanizzazione” del Paese, la demilitarizzazione e soprattutto la rinuncia dell’Imperatore alla propria divinità vengono vissute come un tradimento dell’anima stessa del Sol Levante.
Caduta l’alleata Germania guidata da Adolf Hitler (descritto nel dramma Il mio amico Hitler, edito Guanda con la traduzione di L. Origlia, come “un genio politico, ma non un eroe”), il Giappone postbellico perde il suo onore, sostituendo la sacralità della tradizione con il vuoto materialismo e il consumismo occidentale. Disgustato da questa trasformazione, Mishima diventa a tutti gli effetti un fervente nazionalista, ma non nel senso moderno del termine: la sua è una forma di patriottismo trascendente, nostalgico e spirituale, radicato nell’antico Bushidō e nell’idea dell’Imperatore come simbolo eterno dell’identità nazionale.
Nel 1968 fonda addirittura la Tatenokai (o Società dello Scudo), una milizia privata composta da giovani devoti all’Imperatore e ai valori tradizionali. Seppur piccola e simbolica, questa rappresentazione incarna a pieno la visione dell’esteta giapponese: un esercito morale, impegnato a salvaguardare e custodire lo spirito del Giappone. I membri della società vengono sottoposti a una rigida disciplina, riflettendo l’ideale estetico e guerriero del loro fondatore.
Questo fervore politico e spirituale – alimentato da un senso tragico ed epico della storia – lo conduce a un amaro finale, un coup de théâtre tanto drammatico quanto simbolico.
Il giorno del Seppuku
Il 25 novembre 1970, Mishima trasforma il suo ultimo giorno in una rappresentazione teatrale, fondendo vita e arte in un gesto tanto estremo quanto calcolato. Insieme a quattro membri della Tatenokai occupa l’ufficio del generale Kanetoshi Mashita, comandante di una base delle Forze di Autodifesa giapponesi. Una volta preso in ostaggio il militare, Mishima si affaccia dal balcone dell’edificio per rivolgere un appassionato discorso ai soldati radunati nel cortile.
Le sue parole risuonano come un appello accorato alla restaurazione dell’Imperatore come figura centrale e sacra della vita politica giapponese; un richiamo alla rinascita dello spirito tradizionale perduto. Tuttavia, il suo pubblico rimane indifferente, reagendo nel migliore dei casi con incredulità e nel peggiore con scherno. Il silenzio e il disinteresse che lo circondano sanciscono il fallimento della sua missione, ma Mishima sembra esser preparato anche a questo epilogo: il rifiuto del suo messaggio non fa altro che amplificare la necessità del sacrificio finale.
Rientrato nell’ufficio, Mishima si siede per compiere il seppuku, l’antico suicidio rituale dei samurai. Il gesto segue un protocollo rigoroso: con un coltello cerimoniale squarcia il proprio ventre in un atto simbolico di purificazione e di protesta contro la decadenza morale. Subito dopo uno dei suoi discepoli tenta di eseguire la decapitazione rituale, ma fallisce più volte, costringendo un altro membro della Tatenokai a completare l’atto.
Questo drammatico finale lascia il Giappone e il mondo intero attoniti: Mishima abbraccia una morte violenta e rituale, una sorte anacronistica nel Giappone del dopoguerra. La sua scelta non è però un mero atto politico. “La vita e la morte devono essere opere d’arte” raccontava lo stesso autore nelle sue escursioni saggistiche; ed ecco che Mishima – mantenendo fede al suo credo – trasforma la sua morte in opera, atto culminante di una vita vissuta all’insegna della coerenza estrema tra ideali e azioni.
L’eredità di Mishima
Autore prolifico, Mishima ha scritto oltre 40 romanzi, 18 opere teatrali e numerosi saggi e racconti, costruendo un corpus letterario che attraversa epoche, generi e stili. La sua eredità non si limita alla sola letteratura: registi, artisti e musicisti di tutto il mondo continuano a trovare ispirazione nella sua estetica complessa e nella sua vita straordinaria. Tra questi, il film Mishima: A Life in Four Chapters di Paul Schrader (1985) offre una visione potente della sua esistenza e del suo universo creativo, combinando elementi biografici e adattamenti delle sue opere.
In questa lotta interiore e artistica, Mishima ha offerto (ed offre tutt’oggi, attraverso i suoi scritti e il suo vissuto) un messaggio universale: l’arte è l’unico mezzo per trascendere la fugacità dell’esistenza. Attraverso la parola e il teatro, ha creato un ponte tra il transitorio e l’eterno, cercando di elevare la condizione umana attraverso la bellezza e il coraggio.
Il suo vissuto rimane divisivo, ma indiscutibilmente influente: con la sua morte drammatica e con le sue opere immortali, Mishima si è consacrato come un poeta della tragedia e un alfiere della bellezza, capace di risvegliare riflessioni che risuonano oltre ogni confine temporale e culturale.
Fonte: www.illibraio.it