Quella di Nadia Terranova, che torna con l'intimo "Qualcosa che so di te", è un’indagine familiare tra misteri e silenzi, tra legami di sangue e di emozioni, nelle complessità della felicità della maternità, e dei suoi smarrimenti: è una storia di fantasmi e di grande realtà, quella che le donne conoscono, e non sempre riescono a esprimere... la storia di una famiglia e delle sue paure attraversato le generazioni
“Quando mia figlia sarà grande, il tempo e la verità avranno trasformato i sassi in vento, le leggende di famiglia in parole elastiche, e il dolore sarà diventato innocuo”.
Ci sono donne con destini già scritti, con etichette che la memoria mette loro addosso, eliminando ogni complessità, ogni intimità, ogni parola: la storia è piena di donne che subiscono il linguaggio del non detto.
La bisnonna di Nadia Terranova è vissuta in un bozzolo di afflizione e solitudine, in un misto di senso di colpa e di sentimento di inadeguatezza: la Mitologia Familiare la dipinge con le tinte dell’isteria, della melanconia, del silenzio. Fatto sta che Venera, si narra tra parenti, per una brutta caduta ha perso la bimba che aspettava, ne è rimasta sconvolta, al punto da non riuscire più a reagire, fino a diventare un imbarazzo per la famiglia, per il marito che non ha saputo come gestire la sua disperazione. Venera è diventata “una da Mandalari”: così a Messina si chiamava il manicomio, con il nome del fondatore.
La bisnonna pazza è stata internata, matricola n. 12.283. Nella sua caduta accidentale, che l’ha resa una superstite della vita, si celano le storie di tante vite spezzate da un inciampo improvviso, da un macigno che non si è riusciti a spostare dal proprio cammino, storie di sopravvissute.
“Non sono stata una buona madre, non sono morta abbastanza”.
Venera è un fantasma che fa visita a Nadia, una visione che lei incontra in sogno, e quando Nadia diventa madre, le si incarna nel corpo, una macchia sul viso, un marchio di affinità e di legame.
Ma una madre non può permettersi di impazzire, e Nadia con la nascita della figlia si trova ad attraversare un varco, a interrogarsi su quell’eredità emotiva, sul genogramma che è un misto di sangue e di relazioni, di similitudini tra antenati, e forse di una linea di pazzia che adesso deve interrompere.
C’è, nella maternità, uno strano potere diceva Virginia Woolf, ma nella maternità c’è anche tanto invisibile: con Quello che so di te (Guanda), Nadia Terranova scava nelle pieghe della memoria, di quelle parole che rimanendo inespresse finiscono per imprigionare, rivolgendosi a Venera, come lei esaltata ed esasperata da un ruolo che è travolgente come un terremoto.
“I giorni dopo il parto sono una valle scoscesa: a certe donne capita di restarci invischiate, altre grattano le pareti del canyon, si aggrappano agli spuntoni per risalire verso il primo spicchio d’aria, la prima feritoia. Io so cosa vedono, so che non usciamo mai intere da lì dentro”
Ci si trova “madre” appena uscita dalla sala parto, agli occhi e al giudizio di tutti, infermiere, familiari, conoscenti: una definizione improvvisa e sbrigativa, quando si è ancora travolta, ancora a metà, impreparata a tutto, anche a quella parola che sembra troppo grande, e troppo nuova, non prevede cedimenti, solo perfetta adesione al ruolo. È tutto così immenso che il lessico è insufficiente a definirlo.
Nadia a due anni di distanza dal suo parto, ancora spaesata, insieme triste e felice, scava con ferocia intima e con onestà estrema nel significato dell’essere mamma, nel suo senso costante di paura, di inadeguatezza, di responsabilità asfissiante, di sensi di colpa e rimorsi. Perché non c’è Giuria Familiare che possa stabilire quando è lecito preoccuparsi e quando è disumano distaccarsi, che sappia discernere il significato del giusto, l’argine tra l’apprensione e l’isteria.
“Mi guardo le mani alla ricerca di una forza antica, caccio Venera e la sua pazzia. Non posso più permettermela”.
Scrivere è dare voce al non detto, ed è come un incantesimo, che sa restituire dignità alla memoria, dando parole a chi non le ha avute, e concretezza a un germe di vulnerabilità che cova in tutti.
Quello che so di te non è solo abitato da donne, anche se la linea di sangue unisce Venera alle figlie nate, alla figlia non nata, e poi a Nadia e a sua figlia, da proteggere: restituendo voce alle cadute delle donne, questa storia riconosce anche il dolore impotente degli uomini, ed è insieme una storia di padri, granatieri che impazziscono anche loro, che hanno paura, e che si salvano, con una pietà capace di mettersi in ascolto. E nel femminismo di Nadia Terranova c’è spazio quindi per un equilibrio pieno di rispetto, che vuol dire ammettere la fallibilità umana, avere compassione dei rispettivi tormenti, quando si rivendica la libertà di non essere sempre all’altezza, il diritto al fallimento.
“Un conto è sognare il passato, un conto andarselo a prendere”.
Per riprendersi il passato, che chiede attenzione, e per poter controllare gli anni che verranno, e che chiedono luce, Nadia ripercorre la storia di Venera: va a Messina, in mezzo ai fantasmi della sua città, entra nelle stanze che hanno ospitato Venera, legge gli incartamenti, scava nelle memorie familiari, che per definizione difendono il passato spingendolo nel buio, per fare uscire la storia della sua antenata, per trovare anche se stessa nei ricordi di una genealogia intrisa di cupezza, per capire che la verità è quella che ci raccontiamo per sopravvivere, anche trasfigurando il vissuto.
Lasciare spazio al presente vuol dire accettare che non c’è una ragione per tutto, non c’è il giusto assoluto, e che possiamo non farcela e basta. Quella di Nadia Terranova è un’indagine familiare tra misteri e silenzi, tra legami di sangue e di emozioni, nelle complessità della felicità della maternità, e dei suoi smarrimenti: è una storia di fantasmi e di grande realtà, quella che le donne conoscono, e non sempre riescono a esprimere.
A Terranova non mancano le parole, né il coraggio per affrontare una scrittura personale, profetica, liberatoria, in un Lessico famigliare della memoria, che sa dialogare con l’invisibile e raccontare i percorsi accidentati della vita.
“Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace”.
Fonte: www.illibraio.it