La Roma mista e metafisica dei “Racconti romani” di Jhumpa Lahiri

di Redazione Il Libraio | 14.09.2022

"Racconti romani", il volume con cui la pluripremiata scrittrice Jhumpa Lahiri torna in libreria, raccoglie nove storie (alcune di respiro romanzesco) in cui riconosciamo una città contraddittoria che ridefinisce sempre se stessa, trasformandosi di generazione in generazione in un amalgama, in un viavai ibrido di stranieri e romani che si sentono comunque sempre tutti fuori posto - Su ilLibraio.it "La riunione", un racconto tratto dalla raccolta


A un anno dalla pubblicazione della raccolta di poesie, ovvero Il quaderno di Nerina (Guanda), la pluripremiata scrittrice Jhumpa Lahiri (Premio Pulitzer per la narrativa, Premio PEN e molti altri), nonché traduttrice, saggista e professoressa di scrittura creativa all’università di Princeton, torna in libreria con un volume intitolato Racconti romani (Guanda), in cui la vera protagonista – e non (solo) l’ambientazione – è proprio la capitale italiana, una Roma mista e metafisica, contemporanea ma eternamente sospesa fra passato e futuro.

Si tratta di nove storie, alcune di respiro romanzesco, in cui riconosciamo infatti una città contraddittoria che ridefinisce sempre se stessa, trasformandosi di generazione in generazione in un amalgama, in un viavai ibrido di stranieri e romani che si sentono comunque sempre tutti fuori posto.

Segnati da un ambiente al contempo ospitale e ostile, i personaggi che abitano questi racconti vivono momenti di epifania ma anche violente battute di arresto.

Mezzo busto dell'autrice Jumpha Lahiri
Jhumpa Lahiri (foto di Yuma Martellanz)

Così, Il confine descrive le vacanze di una famiglia in una casa della bella campagna romana, ma la voce narrante è quella della figlia del custode che un tempo faceva il venditore di fiori in città e nasconde una ferita.

Ne Le feste di P. un uomo rievoca le animate serate nell’accogliente casa di un’amica che non c’è più.

La scalinata, una storia corale di quartiere, raduna sei personaggi, diversissimi per origine e appartenenza, attorno a un ritrovo comune, un saliscendi continuo di vita nel centro di Roma.

Nella Processione, poi, una coppia cerca invano in città consolazione e sollievo per un episodio del passato che ha segnato tragicamente le loro vite, mentre in Dante Alighieri il poeta affiora rigoroso e a suo modo inedito nella vita di una donna americana trasferitasi in Italia, tra memorie del passato e inadeguatezze del presente, finché incipit vita nova.

L’andamento della scrittura è riconducibile agli autori italiani del Novecento che Jhumpa Lahiri conosce e ama profondamente, a partire da Alberto Moravia (1907-1990) che riecheggia già nel titolo.

Ma i temi di questo libro, il quinto che l’autrice scrive direttamente in italiano, sono tutti suoi: lo sradicamento, lo spaesamento, la ricerca di un’identità e di una casa, il sentimento di essere stranieri e soli ma, proprio per questo, in lotta e vitali.

Copertina del libro Racconti romani di Jumpha Lahiri

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un racconto tratto dalla raccolta:

La riunione

Un giorno assolato di settembre due signore si incontrano sul ponte Sisto e si abbracciano. È un anno che non si vedono. Scavalcano la bassa catenella arrugginita che blocca il traffico, dove gli innamorati agganciano i lucchetti agli anelli e i pedoni disattenti inciampano. Sono le due passate, hanno entrambe fame.

Una, cresciuta vicino al ponte, è in lutto: ha perso il padre da qualche settimana, ed è anche addolorata per il matrimonio che sta per spegnersi. È una donna minuta con i capelli chiari e raccolti, grandi occhi verdi, e un orecchio tempestato di brillanti e piccoli anelli d’oro.

L’altra, una professoressa universitaria, ha i capelli scuri, ed è scura anche di carnagione. È più alta rispetto all’amica, e in quei giorni è anche più felice. Ha appena compiuto gli anni al mare, è molto abbronzata e si sente ringiovanita. Ci teneva a incontrare quell’amica in un momento difficile, nel mezzo della separazione e in lutto per il genitore.

« Quando sei tornata? » chiede alla sua amica, tenendola sotto braccio mentre camminano.

« Una decina di giorni fa. Te? »

« L’altro ieri. »

Le due signore, entrambe con due figli più o meno della stessa età, avevano fatto amicizia tempo prima al parco giochi di piazza San Cosimato. Andavano spesso a mangiare in questa o quella trattoria e a fare lunghe chiacchierate.

Da un paio d’anni invece la signora in lutto, ora a Roma per il funerale del padre, vive in una città straniera ma vicina. Ci vive con i due figli ma senza il marito, che doveva rimanere in Italia per il suo lavoro e con cui le cose, all’epoca, andavano abbastanza bene. Lei, a quarantasei anni, voleva cambiare aria; la sua malmessa città natale le pesava parecchio.

Anche la professoressa è rientrata di recente a Roma, non per affrontare una perdita ma per godersi un anno sabbatico con la sua famiglia. Conosce bene la capitale e la ama; ci viene spesso per le sue ricerche e per conferenze, da sola o con la sua famiglia, ogni tanto per lunghi periodi, per studiare la storia antica della città.

Oggi la signora in lutto ha prenotato in una trattoria cui è molto affezionata, una delle poche, dice, che resistono testardamente, meravigliosamente, allo scorrere del tempo. « Così ti faccio conoscere un posto nuovo. Tanto ormai la mia città è anche tua. »

Per andare alla trattoria passano sotto il palazzo elegante dove abitavano, durante la gran parte dell’anno, i genitori della signora in lutto. « Strano pensare che lui non ci tornerà mai più » sospira lei, riferendosi al padre, un giornalista che parlava cinque lingue e girava il mondo, una volta. D’estate i suoi genitori si spostavano in montagna, al fresco. Il padre, ormai ultranovantenne, è morto nello stesso letto di montagna in cui era nato. La casa in città era sempre disabitata d’estate, ma ora, dice, è vuota in modo diverso.

La signora in lutto racconta all’amica di essere entrata in fretta poco prima a recuperare un paio di cose che le servivano, di essersi trovata circondata dai quadri, dai libri e da altri oggetti che appartenevano al padre e di esserne stata naturalmente turbata.

« Eri con lui quando se n’è andato? » chiede la professoressa.

« Ero in aereo, non ho fatto in tempo. »

La trattoria è in una stradina senza marciapiede di una zona labirintica e sempre affollata. La stessa zona dove, anni fa, la professoressa aveva affittato una casa per l’estate, proprio nella strada dove è cresciuta la signora in lutto. Alle signore è sempre piaciuta questa coincidenza, questo luogo in comune sebbene vissuto in tempi diversi, in circostanze assai diverse.

Quando arrivano alla trattoria, rischiano di superarla, tanto la facciata ha un’aria discreta, quasi anonima. Non assomiglia alle altre trattorie dei dintorni invase da turisti. Non assomiglia, per esempio, alla trattoria pochi passi più in là che aveva accolto con tanto calore la professoressa e la sua famiglia quasi tutte le sere quell’estate. Quella trattoria aveva bottiglie di vino in vetrina e fuori ombrelloni bianchi e sbrindellati. Ci si sedeva su sedie di plastica traballanti, sulla piazza che inclinava, accanto al muro screpolato, e a volte dopo il pasto e prima di portare il conto i due fratelli che gestivano il locale appoggiavano una grande bottiglia di Averna sul tavolo.

La trattoria in cui entrano oggi ha un aspetto riservato, con due porte di vetro che appartengono a due palazzi diversi. Uno ha delle mattonelle, mentre la facciata dell’altro, liscia, è dipinta in grandi blocchi di rosa e arancione tenue. Una delle due porte fiancheggia l’ingresso mentre l’altra funge da finestra. Entrambe sono di vetro smerigliato in modo da tenere fuori gli sguardi dei passanti. Per entrare bisogna suonare, e siccome l’ingresso è di sbieco rispetto alla strada si vede a malapena uno scorcio dell’interno.

Una volta entrate, la signora in lutto saluta la padrona, una donna robusta con gli occhiali sottili e i capelli bianchi e corti. Poi riconosce e saluta un signore seduto a un tavolo nell’angolo con un bambino di circa sei anni. Dal loro scambio caloroso la professoressa capisce che è un suo amico storico, cresciuto come lei a due passi dalla trattoria.

« Scusa se ti do le spalle » gli dice la signora in lutto mentre si siede.

« Allora mi metto qui io » propone la sua amica, quindi si scambiano i posti e appoggiano le loro borse sulla sedia in mezzo.

La trattoria ha una forma a L. Le pareti bianche, la modanatura nera e la zoccolatura pallida di marmo richiamano alla mente l’aspetto spoglio e immacolato di una macelleria. La signora in lutto è rivolta all’amico storico nell’angolo, la professoressa verso un tavolo di uomini ben vestiti che probabilmente lavorano tutti nello stesso ufficio. Impossibile vedere cosa c’è dietro l’angolo.

Sul tavolo, un menù dentro una busta trasparente: un foglio bianco con le pietanze battute a macchina. Resta però sul tavolo, le due signore neppure lo guardano.

La padrona, che è anche la cuoca e la cameriera, dice loro cosa c’è da mangiare. Ha le braccia robuste e porta, sopra una camicia bianca di cotone a maniche corte, il grembiule. La signora in lutto sceglie una verdura per iniziare e poi un primo.

« E cosa portiamo intanto alla moretta? » chiede la padrona in maniera sbrigativa, senza rivolgere la parola direttamente alla professoressa.

Dopo qualche secondo lei risponde: « Prendo lo stesso », avvertendo una sensazione fastidiosa, simile a quando le gambe leggerissime ma affilate di un insetto minaccioso si appoggiano appena sulla mano.

« Mi spieghi cosa si intende, esattamente, quando si dice ‘la moretta’? » chiede la professoressa.

« Non farci caso, qui si dice a chiunque abbia i capelli scuri » mormora la signora in lutto, avendo notato il lieve sconforto dell’amica.

La professoressa nota, ora che sono sedute, quanto la sua amica è stremata.

« Riesci a dormire? »

« Poco. »

« Mangiare? »

« Oggi sì, qui si mangia sempre benissimo. »

Proprio in quel momento la padrona porta dell’acqua e un cestino con solo due pezzi di pane. Poi arrivano delle verdure lesse di un verde cupo ma lucido.

« Tieni, tesoro » dice alla signora in lutto. All’altra invece: « E lo stesso per la bella signora ».

Il nuovo epiteto, pronunciato in modo obliquo, con un tono aspro, la urta lo stesso.

« Come stanno i ragazzi in tutto questo? » chiede all’amica in lutto. Entrambe hanno un maschio e una femmina.

« Ormai hanno capito. Li ho lasciati con mia mamma in montagna. Ti faccio vedere. » Anche la professoressa
tira fuori dalla borsa il suo cellulare.

« Tua figlia è uguale a te » osserva la signora in lutto.

« La tua invece assomiglia molto al padre » risponde la sua amica. Chiede, discretamente: « Sta sempre
con la sua collega? »

« Pare di sì. Che ci dobbiamo fare? »

« Come l’hai scoperto? »

« Guarda, ora credo di averlo saputo già allora, almeno intuito. Per questo, secondo me, ho voluto andare via, perché qualcosa non andava. »

« Hai fatto bene. »

« All’epoca mi illudevo. Pensavo di fare come te, e di scoprire un nuovo posto con i miei figli. La mia decisione però ha solo accelerato la fine di un matrimonio moribondo. »

La signora in lutto racconta di avere già parlato con un avvocato, ma siccome ora abita in un’altra città con i figli la situazione è piuttosto complicata.

Si interrompe per salutare l’amico storico che ha finito di pranzare.

« Hai visto come si mangia bene qui? » dice al bambino. « Pensa che venivo anch’io alla tua età. Come te, a pranzo, con mio papà. »

Il bambino, timido, la guarda con occhi sgranati senza rispondere.

A quel punto ricompare la padrona con il primo.

« Parli troppo, non hai ancora finito la verdura » dice, rimproverando con tenerezza la signora in lutto. Stavolta, nessun epiteto per la professoressa.

Il primo piatto è molto caldo, blando ma buono.

Mentre mangiano squilla il cellulare della signora in lutto.

« Sono a pranzo con una mia amica » dice, e poi chiede alla persona con cui parla di passare dalla trattoria. Spiega all’amica che è un vicino di casa dei suoi genitori e che deve consegnarle la posta accumulata a casa loro, compresi tanti telegrammi per la scomparsa del padre.

Qualche minuto dopo arriva il vicino di casa con una busta di carta nera. Bacia la signora in lutto e stringe con veemenza la mano della professoressa.

« Siediti » dice la signora in lutto. « Prendi un caffè? »

« No, grazie. Ecco la posta. »

Parlano del padre, e la signora in lutto sintetizza gli ultimi giorni, i suoi desideri dal capezzale, il funerale.

« È stato esattamente come lui lo avrebbe voluto » dice malinconicamente, senza però piangere.

« Era un uomo eccezionale » dice il vicino di casa. « Ho sempre ammirato la sua vocazione per i viaggi, per i mondi diversi. Ci mancherà. »

Poi saluta le signore e va via. Anche gli uomini al tavolo di fronte si alzano per andarsene. Alcuni guardano la professoressa con una certa curiosità.

« E tu, contenta di essere tornata in questa città? » chiede all’amica la signora in lutto.

« Ritrovarla per me è ogni volta un piacere nuovo » risponde. Aggiunge: « Resta l’unico posto in cui mi sento veramente a casa ».

Appena glielo dice, però, teme di avere un rapporto sempre tenue con la città: di non avere, alla fine, nulla a che fare con la storia che studia, e di non poter mai sentire il sollievo di pranzare in un locale di fiducia che faceva parte della storia della sua famiglia, che custodiva bei ricordi di innumerevoli pranzi padre-figlia, uno spazio come quello che dava conforto alla sua amica perfino dopo una perdita così immensa.

Qualcuno ha spento qualche luce, per cui l’interno della trattoria è diventato più buio, come se stesse per arrivare un temporale.

« Andiamo? » propone la signora in lutto.

« Andiamo. »

« Vado un attimo in bagno. »

« Bene, poi ti seguo. »

Da sola al tavolo, la professoressa studia la tovaglia, l’insegna della trattoria, il menù trascurato. Si chiede se il posto sarebbe piaciuto alla sua famiglia. Ma poi si chiede anche se la padrona avrebbe chiamato sua figlia, che le assomiglia, « la moretta ». Pensa in ogni caso che è bello vivere in una città che, pur essendo conosciuta, resta piena di segreti e scoperte che si illuminano per caso, lentamente.

« Qui è come se fosse casa loro » dice la signora in lutto quando torna al tavolo, con aria divertita.

La professoressa va a cercare il bagno. Girando l’angolo, si accorge che oltre alla padrona c’è un’altra donna un po’ più giovane alla cassa, con i capelli neri – sembrano tinti –, e anche una bambina di sei o sette anni, fin lì silenziosa. Le due donne sono forse sorelle, e la bambina la nipote di una di loro. Badano con una certa svogliatezza alla bambina, che sembra girare a vuoto in uno spazio angusto.

« È qui il bagno? » la professoressa chiede, riferendosi a una porta su cui non c’è scritto nulla.

La donna più giovane risponde, secca, di sì.

La professoressa, nel bagno, riflette sull’osservazione della sua amica, di trovarsi in una casa altrui. Un tipico bagno da trattoria. Eppure si sente a disagio lì dentro, di intralcio.

All’uscita, trova la bambina seduta per terra con le gambe spalancate. Così non può passare. Aspetta qualche secondo che la bambina si sposti. Invece rimane immobile. La padrona e la donna alla cassa non le dicono di levarsi, non le dicono nulla. Quindi la professoressa chiede alla bambina: « Posso? »

Lei non risponde né reagisce, comportandosi come se non avesse sentito la professoressa. A quel punto scavalca cautamente la gamba nuda della bambina per tornare al tavolo.

Appena al di là della piccola barriera di carne e ossa, sente la bambina bisbigliare qualcosa di lamentoso senza capire esattamente quello che dice. Lo capisce dalla risposta della padrona: « Sei tu che ti devi spostare per lei ».

Lo ha detto, però, sempre con quel tono obliquo, trattenuto, per cui la professoressa prova di nuovo disagio.

« Dobbiamo chiedere il conto » dice la signora in lutto vedendo l’amica tornare.

Lasciano il tavolo e vanno a pagare. La bambina è ancora lì, con le gambe tese, spalancate.

Quando arriva la signora in lutto sposta immediatamente una gamba per farla passare.

Ma quando arriva la professoressa la blocca nuovamente.

Poi dice alle due donne che sembrano sorelle, indicando la signora in lutto che sta davanti: « Lei è più bella ».

Nessuno risponde.

La bambina ripete, enfatica: « Lei è più bella dell’altra ».

La padrona dice, pacata: « Tutte le donne sono belle, e tu sei una mocciosa ».

« Ma lei è più bella » insiste la bambina, nervosa. « L’altra non mi piace. »

« Hai ragione, la mia amica è molto bella » dice la professoressa con allegria, pur sentendosi amareggiata. Poi aggiunge, cercando di scherzare con la bambina e di spezzare l’atmosfera sempre più rigida: « E come mai non ti piaccio? »

Ma la bambina, come la padrona, si rifiuta di parlarle direttamente, così come si è rifiutata di spostare le gambe. Invece dichiara, alla padrona e alla donna che gestisce la cassa: « L’altra non mi piace, è brutta, bruttissima ».

E così sigilla l’unico spiraglio attraverso il quale la professoressa poteva entrare in confidenza con lei.

La signora in lutto, che ha la bambina dietro le spalle, ed è assorta nel conto, non le dà retta. La padrona e la donna alla cassa sono sempre mute. Nessuno dice alla bambina di stare zitta o di chiedere scusa.

La signora in lutto fa vedere il conto alla sua amica, la quale, attonita, tira fuori quasi meccanicamente il portafoglio, i soldi. È una cifra dispari, anche il resto è dispari, per cui la signora in lutto paga un po’ meno, la professoressa un po’ di più.

« Ti devo cinque euro » dice la signora in lutto.

« Tranquilla, sarà per la prossima » risponde l’altra.

La bambina continua a dire che la signora in lutto è bella e che la professoressa è brutta come fosse un ritornello sciocco, sinistro, finché la donna alla cassa non dice, bruscamente: « Ora alzati, su, che ti porto dalla mamma ».

« Grazie » dice la signora in lutto alla donna alla cassa.

« Arrivederci, dottoressa » le risponde.

« Salutami la mamma » aggiunge la padrona.

« Mi spieghi cosa è appena accaduto lì dentro? » chiede la professoressa, una volta in strada. Suda, ma non per via del caldo.

« Lascia stare, è una bambina maleducata. »

« Non solo, è piena di rancore. »

« Fregatene. Mi dispiace. »

« Dispiace anche a me. So che ci tenevi a portarmi lì, ma io in quel posto non tornerò mai più. »

« Hai ragione. »

Attraversano il ponte insieme, scavalcando la prima catenella pregna di promesse antiquate, poi la seconda. Si interrogano sulla vicenda nella trattoria, sulla convinzione impunita della bambina, sul silenzio intransigente delle donne. Dall’altra parte del ponte si abbracciano.

« Allora ciccia, ci sentiamo. »

« Ciao cara, stammi bene. »

Si separano, senza però la leggerezza che chiudeva, una volta, i loro incontri.

Dopo qualche minuto la professoressa appena aggredita arriva a piazza San Cosimato e si mette su una panchina sporca e bollente. Il cibo nello stomaco è diventato un peso duro. Si sente non soltanto brutta e amareggiata ma anche umiliata, in preda a una tristezza che non sa arginare.

La signora in lutto invece torna dall’altra parte del fiume, dove si mette su un’altra panchina all’ombra a setacciare la posta dei suoi genitori, a leggere qualche cartolina indirizzata al padre defunto, e a consolarsi con le condoglianze spedite dai loro cari, da vicino e da lontano.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it


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