“Sono essenzialmente uno sradicato". In occasione dell'uscita di "Indipendenza", lo scrittore Javier Cercas si racconta a tutto campo su ilLibraio.it. Parla dei punti cardine del nuovo libro ("È un ritratto duro del ceto dirigente di Barcellona, ma questa élite non è un’eccezione, ne esistono dappertutto uguali. È una storia piena di furia contro la tirannia"), della sua idea di letteratura ("Detesto quella pretenziosa, solenne") e di pandemia ("Sono sicuro che nel 2025 nessuno ne parlerà e, soprattutto, non ne parlerà nessun grande romanzo")
Javier Cercas (in copertina, nella foto di Yuma Martellanz, ndr) torna in libreria con Indipendenza (Guanda 2021, traduzione di Bruno Arpaia), seguito di Terra Alta (Guanda 2019), thriller che è valso all’autore il prestigioso Premio Planeta 2019, ma che può anche essere letto come romanzo a sé stante.
E in Indipendenza tornano i temi cari allo scrittore spagnolo, dal dualismo realtà-apparenza alla riflessione sull’eroismo. Con la vicenda di Melchor Marín, personaggio fittizio che Cercas immagina essere “l’eroe di Cambrils”, il poliziotto che uccise quattro terroristi durante il tristemente famoso attentato di Barcellona e la cui identità è tutt’ora sconosciuta, Cercas indaga il nostro futuro prossimo, ancora dominato dai populismi, distaccandosi dalla riflessione sul passato che lo aveva reso celebre con romanzi come Soldati di Salamina (Guanda, 2002) o Il sovrano delle ombre (Guanda 2017).
ilLibraio.it ha intervistato l’autore, per ripercorrere con lui i punti cardine del nuovo romanzo e della sua produzione letteraria.
Il detective Melchor Marín, protagonista di Indipendenza, è figlio di due patrie, Barcellona e la Terra Alta, una condizione che in qualche modo corrisponde alla sua biografia, l’Estremadura da una parte e Barcellona dall’altra: come ha influenzato la sua scrittura questo aspetto della sua vita?
“Sono essenzialmente uno sradicato. Come ho raccontato in un dibattito pubblico con il cardinale Gianfranco Ravasi, sono figlio di un doppio sradicamento: geografico, perché sono nato in un piccolo paese del sud della Spagna, dove tutti erano parenti e si conoscevano, e, quando avevo quattro anni, mi sono trasferito in Catalogna. Questo sradicamento è stato essenziale, perché quando perdi il tuo luogo nel mondo non lo recuperi più: sono diventato scrittore per questo, perché ho perduto il mio posto nel mondo. Cesare Pavese diceva che la letteratura è una difesa contro le offese della vita ed è quello che è stato per me: un rifugio dalle offese. E a questo sradicamento fisico ne è seguito un altro spirituale”.
Ci racconti di più.
“Tutte le cose importanti mi erano successe in questo paesino, dove tornavamo ogni estate, e infatti è lì che, quando avevo quattordici anni, mi sono innamorato per la prima volta. Quando sono finite le vacanze e sono dovuto tornare in Catalogna è stato terribile, volevo morire. Io ho sempre letto, da bambino leggevo romanzi di avventura, ma a quel punto, ritornato a casa alla fine di quell’estate, ho cambiato letture e sono andato a cercare un libro che si intitola San Manuel Bueno, martire, di Miguel de Unamuno, che parla di un prete che ha perduto la fede. Perché anche io avevo perduto la fede: ero un bravo studente, sportivo, ma a quel punto ho cominciato a fumare, a bere birra, sono entrato in una sorta di caos da cui ancora oggi non sono uscito… E la letteratura a quel punto è diventata una cosa diversa, non soltanto una forma di svago, ma qualcosa di molto più serio: una forma per ritrovare le certezze che avevo perso. Senza questo sradicamento geografico e spirituale forse non sarei diventato uno scrittore”.
In questo romanzo ha deciso di giocare con il giallo, che è un genere molto codificato, rompendo alcune regole, per esempio entrando lei ‘Javier Cercas’ come personaggio, come mai?
“Non sono sicuro che questo sia un giallo. Borges diceva che tutti i romanzi sono gialli e, in effetti, tutti i miei romanzi in un certo senso lo sono, perché in tutti c’è un enigma e qualcuno che vuole decifrarlo. E non credo neanche che il giallo sia un genere minore: in letteratura non esistono generi maggiori o minori, ma forme maggiori o minori di usarli. Per esempio, la commedia ha sia Shakespeare sia autori meno interessanti e il giallo ha sia Allan Poe, Borges, Sciascia, sia autori meno interessanti. Ci sono solo due tipi di romanzi: quelli buoni e quelli cattivi. Detto ciò, non volevo consciamente giocare con le regole del giallo, ma fare quello che faccio sempre quando lavoro a un libro: scrivere il miglior romanzo possibile. E per scrivere il miglior romanzo possibile bisogna, come diceva Cervantes, avere totale libertà, dimenticare tutto il resto. C’è soltanto una regola: non ci sono regole. Devo dire comunque che l’umiltà del giallo mi piace moltissimo”.
In che senso?
“Detesto la letteratura pretenziosa, solenne, la grande letteratura non lo è mai: Cervantes non è pretenzioso, Shakespeare non è pretenzioso, anzi, sono entrambi scrittori popolari. Per contro, è vero, inserisco Terra Alta e Javier Cercas nel romanzo, ma da un lato mi è sembrato logico, perché Indipendenza si svolge nel 2025, quindi quel libro esiste già nella realtà della storia, e dall’altro non sono capace di concepire un romanzo senza ironia. L’umorismo, in realtà, è la cosa più seria del mondo, perché comincia con noi stessi: se non siamo capaci di ridere di noi non abbiamo diritto di ridere di nient’altro. E anche questo ce lo ha insegnato Cervantes”.
In questo romanzo lei torna a riflettere sul rapporto tra finzione e realtà.
“Non esiste la finzione pura, perché la sua origine è sempre la realtà, la finzione è una trasfigurazione della realtà, che trasforma il particolare in universale. E la letteratura, dalla notte dei tempi, si basa sulla mescolanza tra finzione e realtà. L’altro aspetto della questione, invece, riguarda la relazione tra realtà e menzogna: la letteratura è una forma particolare di menzogna, Platone direbbe una nobile menzogna. Perché serve a dire la verità. Paradossalmente in letteratura questa menzogna è uno strumento di libertà, di liberazione personale e di conoscenza; mentre nella realtà porta a conseguenze catastrofiche, nella finzione è necessaria”.
In Indipendenza un esempio di menzogna nella realtà è rappresentato dalla vicenda politica della sindaca di Barcellona, Virginia Oliver, prima paladina dei migranti, poi nazionalista.
“La menzogna è il principale strumento dei populisti, come vediamo ogni giorno, ed è sempre stata utilizzata dai politici a scopo di dominazione. Il problema che abbiamo oggi non è che si dicano bugie che prima non si dicevano, ma che queste abbiano più potere pervasivo e più diffusione grazie ai mezzi di comunicazione e, soprattutto, ai social network. Per questo motivo fa più paura e io penso si debba stare veramente attenti: mi sembra molto pericolosa l’idea di un futuro dove non esiste un controllo democratico dei social network. Questi politici populisti sono ovunque, basti pensare a Donald Trump, il grande bugiardo dei tempi recenti: la sindaca di Barcellona del mio romanzo ne è solo un esempio”.
Come mai ha scelto questo titolo, Indipendenza?
“Ho intitolato il romanzo Indipendenza affinché tutti mi domandassero che cosa significa [ride, ndr]. L’altra ragione è che è una parola bellissima, polisemica, dai molteplici significati. Umberto Eco diceva che il titolo migliore della letteratura è I tre moschettieri, perché in realtà sono quattro, e il più importante è proprio il quarto”.
E che significato ha per lei?
“Indipendenza è la storia di un uomo che si chiama Ricky Ramirez, che umanamente è esattamente il contrario di Melchor Marín; un uomo che va alla ricerca dell’indipendenza personale, individuale, ed economica, ma lo fa in modo sbagliato, ossia cercando di frequentare il ceto dirigente. E che cosa fa, con lui, questa élite? Esattamente quello che fanno tutte le élite economiche: lo usa e poi se ne libera, perché in realtà lo disprezza. Indipendenza non è un romanzo politico, ma ha una lettura politica. Cosa hanno fatto le élite economiche in Catalogna dopo la crisi economica del 2012? Hanno fatto delle pressioni per uscire dalla crisi nel miglior modo possibile per loro, ossia spingendo la gente, che era giustamente furiosa, dalla loro parte, offrendole, grazie ai mezzi di comunicazione e ai social network, un’utopia: quella di un paese indipendente, dove tutti diventano ricchi. Il mio romanzo è un ritratto duro del ceto dirigente di Barcellona, ma questa élite non è un’eccezione, ne esistono dappertutto uguali. Indipendenza è pieno di furia contro la tirannia: la democrazia e la letteratura sono i migliori strumenti che abbiamo a disposizione per lottare contro la tirannia”.
Un’altra riflessione che le è cara è quella sugli eroi. Melchor Marín è un eroe?
“Melchor Marín è, a detta di tutti, l’eroe di Cambrils, perché come racconto in Terra Alta è il poliziotto che ha ucciso gli jihadisti durante l’attentato in questo paesino marittimo della Catalogna. Noi non conosciamo la vera identità del poliziotto che, nella realtà dei fatti, ha ucciso questi terroristi e i vuoti di conoscenza sono l’ideale per uno scrittore. Ma Melchor Marín non si sente un eroe, che poi è la prima condizione per esserlo veramente: non sentirsi tale. Alla fine l’indagine sull’eroe non è altro che un’indagine sulla virtù che, quando diventa pubblica, non è più veramente virtù, deve restare segreta”.
Melchor Marín è un eroe sui generis, come lo sono i protagonisti del suo romanzo preferito, I miserabili di Victor Hugo, Jean Valjean e l’ispettore Javert.
“L’ispettore Javert in realtà è un eroe solo per Melchor, non per i lettori. Javert è un uomo freddo, ossessionato dalla giustizia e Melchor vede in lui un eroe segreto, perché pensa che la legge sia l’unico strumento a disposizione dei deboli e dei miserabili per lottare contro chi detiene il potere. È per questa ragione che Melchor diventa poliziotto, anche se, di fatto, è una mescolanza dei caratteri antitetici dei due personaggi, di Jean Valjean, l’ex carcerato, e Javert, il giustiziere. Quando legge I miserabili Melchor diventa lettore e la sua vita si trasforma, perché questo fanno i libri”.
Ha deciso di ambientare le vicende di Melchor Marín in un mondo post Covid-19, preferendo evitare di utilizzare la pandemia come cornice narrativa. Come mai? Non c’è letterarietà nel presente che stiamo vivendo?
“È una particolarità di tutta la vicenda di Melchor Marín, di cui Terra Alta e Indipendenza sono romanzi autonomi, ma parte di una storia che occuperà ancora un paio di libri. I romanzi sono situati in futuro prossimo, molto prossimo: Terra Alta è uscito nel 2019 e si svolgeva nel 2021, Indipendenza è ambientato nel 2025. Questa ambientazione dipende da una questione di temporalità, perché la storia di Marín si lega a un fatto storico, reale, l’attentato di Cambrils. È un fatto aneddotico, ma essenziale per la vita di Melchor. Immaginare queste vicende nel futuro mi ha dato una grande libertà come narratore e mi ha fatto scoprire un’altra dimensione della scrittura. Nei miei romanzi precedenti avevo capito che senza il passato il presente risulta mutilato, con questi due libri, invece, ho capito che anche senza il futuro il presente è altrettanto mutilato”.
Quanto alla pandemia?
“Sono sicuro che nel 2025 nessuno ne parlerà e, soprattutto, non ne parlerà nessun grande romanzo. Lo dico perché conosco la storia ed è quanto successo con altre epidemie: per esempio l’influenza spagnola, che ha fatto più di cinquanta milioni di morti, più della prima guerra mondiale, però non ha influenzato grandi prodotti narrativi. E la stessa cosa avverrà con questa pandemia, non ha spunti drammaturgici, e senza drammaturgia non c’è letteratura”.
Fonte: www.illibraio.it