“Il fantasma dei fatti” di Bruno Arpaia: dove finisce la finzione e inizia la realtà?

di Gloria Ghioni | 04.03.2020

"Il fantasma dei fatti", nuovo libro di Bruno Arpaia, si muove tra inchiesta, indagine storica, romanzo di spionaggio, con tocchi metaletterari e autobiografici che rimandano all’officina dello scrittore - L'approfondimento


Dove finisce la finzione e inizia la realtà? Il nuovo libro di Bruno Arpaia (foto di Yuma Martellanz), Il fantasma dei fatti (Guanda) si muove tra inchiesta, indagine storica, romanzo di spionaggio, con tocchi metaletterari e autobiografici che rimandano all’officina dello scrittore. I confini sono labili e l’impressione è quella che al cannocchiale della storia, che guarda agli eventi da lontano si sostituisca di tanto in tanto il binocolo della narrazione, dotato di lenti inventive, in grado di romanzare quel che invece resta sfocato nella cronaca.

Via via nella trama si approfondiscono i personaggi e gli eventi, che inizialmente hanno investito il lettore con tutta la loro forza di cronaca. Quattro grandi tragedie – la morte di Mario Tchou, l’attentato a Enrico Mattei, le incriminazioni e le condanne di Felice Ippolito e di Domenico Marotta – sono davvero slegate tra di loro? Dopo la scomparsa di queste persone, tra il 1961 e il 1963, l’Italia ha smesso di far ricerca in campo energetico e tecnologico, dopo un progresso promettente nel periodo della Guerra Fredda: insomma, il nostro Paese è rimasto escluso dall’avanzamento che hanno attraversato altri Paesi, firmando così il proprio destino di impaludamento, di cui subiamo anche oggi le conseguenze.

E se questo non fosse dovuto al caso, ma fosse dipeso da manovre internazionali, gestite dalla Cia? In quegli anni a Roma operava come capo della Cia Thomas Karamessines, detto “Tom il Greco”, ma su di lui ci sono pochissime informazioni, e tutte confermano un “curriculum di un vero e proprio figlio di puttana” (p. 49), a cominciare dal suo coinvolgimento nell’assassinio di Kennedy, fino alla cattura di Che Guevara e al golpe in Cile. L’uomo a un certo punto è letteralmente sparito dalla scena pubblica, rinunciando al suo ruolo e, quindi, è stato ritrovato privo di vita nella sua casa in Québec, a Lac Grand, il 4 settembre 1978.

Dove la storia non arriva, giunge benissimo la narrazione, e, anzi, questa riempie gli anfratti di silenzio e omissioni. Bruno Arpaia costruisce appositamente il suo romanzo su più piani temporali: oltre a quello del presente, dedicato alle sue ricerche storiche e alla documentazione decisamente faticosa, che più volte lo porta a desistere nell’impresa, si avvicenda il piano del passato. Si torna al 3 settembre 1978, per immaginare gli ultimi due giorni di vita di Karamessines: l’uomo apre la porta della sua abitazione canadese a due agenti della Cia, che vogliono convincerlo a tacere in tribunale e a non testimoniare, di lì a poco, su operazioni dell’agenzia. La conversazione tra i tre si muove sempre come in una sapiente partita di scacchi, perché ognuno può prevedere le reazioni e le controbattute degli altri. Karamessines, per quanto “con un carattere brusco, complicato. Chiuso come una vongola” (p. 14), non si sottrae all’interrogatorio (né potrebbe farlo, lo sa bene), per quanto temporeggi e studi i due uomini che ha davanti. La sua confessione, a tratti estorta, a tratti più distesa, rivela il suo coinvolgimento in molte questioni delicatissime, nonché le enormi implicazioni che ha avuto la Cia negli equilibri politici, economici e tecnologici internazionali.

Tuttavia, se questo piano narrativo, giocato tutto sul dialogo sapiente tra i tre, è forse la parte più ricca di suspense del romanzo, in parallelo troviamo le riflessioni metaletterie di Arpaia, che evidenzia le sue difficoltà nell’occuparsi di una faccenda più grande delle sue possibilità: “Non potevo raccontare ‘semplicemente’ i fatti, perché non li conoscevo, o ne conoscevo pochissimi; d’altro canto, se di complotto si era trattato, non riuscivo neanche a immaginarne fino in fondo la portata, i modi in cui era stato realizzato, gli strumenti utilizzati, le persone effettivamente coinvolte. Alla fin fine, cosa ne sapevo, io, di servizi segreti e di spie, di intrighi internazionali e di assassinii politici? Risultato: la realtà sarebbe stata troppo, troppo al di là della mia più sfrenata invenzione”. (p. 118)

Eppure la questione di Tom il Greco diventa quasi un’ossessione, che a fasi alterne si ripresenta, tra un romanzo e l’altro, una presentazione e l’altra, sfidando Arpaia a fare chiarezza. D’altra parte, anche gli altri scrittori con cui ha avuto modo di parlarne lo hanno invitato a proseguire, definendo l’argomento di grande interesse. E tante volte Arpaia ha sentito scorrere nelle sue vene la “frenesia, di nuovo l’eccitazione di essere sulle tracce di una buona storia da raccontare” (p. 151), dal momento che “i romanzi si scrivono per passione, inseguendo una storia o un’idea travolgente, un’ossessione” (p. 127).

Dunque, per quanto lo scrittore abbia rimandato il compito di occuparsi del romanzo, le informazioni parziali danno adito a mere supposizioni, niente di più, in merito al complotto, però presto Arpaia si accorge di essere oggetto di attenzioni particolari da parte di qualcuno. Un malware installato sul suo computer, le gomme dell’auto tagliate, strani rumori nella sua linea telefonica: che la sua ricerca abbia qualche fondamento?

Col passo deciso dell’inchiesta, seguiamo Arpaia in quest’opera sincopata, in cui niente è come sembra. E la nota in calce al libro ne è la prova.

Fonte: www.illibraio.it


Commenti