Gianni Biondillo torna in libreria con "I cani del barrio", un nuovo (doppio) caso che porterà l'ispettore Ferraro a indagare su più fronti: dal ventre della Milano da bere alle bande di latinos, mentre un virus letale imperversa in Cina. Su ilLibraio.it un estratto
Obbligato da Augusto Lanza, il suo stralunato superiore, Ferrario si ritrova a seguire una doppia indagine, sempre con la solita accidia che lo contraddistingue e sempre tra i luoghi e le vie meno convenzionali di Milano, tanto care all’autore. A poco più di tre anni dall’uscita di Il sapore del sangue (Guanda 2018), Gianni Biondillo torna in libreria con I cani del barrio, sempre per Guanda, con l’ultimo caso dedicato all’ispettore milanese.
La trama si svolge, ovviamente, a Milano: in un bosco fuori città un furgone scarica un uomo imbavagliato. Due energumeni dal volto coperto riempiono di botte il malcapitato, poi lo legano a un albero. È chiaramente un’esecuzione. Ma il posto non è davvero isolato, stava passando di là, per caso, un cacciatore che riesce in qualche modo a far fuggire i criminali e a chiamare le forze dell’ordine.
L’uomo che ha rischiato la morte è un pezzo grosso. Un imprenditore «etico», molto corteggiato dalla politica, che ha costruito la sua fortuna combattendo mafie e malaffare. Chi lo voleva uccidere? Il problema è che lui non lo sa. O forse non lo vuole dire.
Ferraro si trova a indagare su un caso che lo condurrà nel ventre molle della Milano da bere, anche se è un altro il mistero che lo appassiona: una donna di origini sudamericane ha denunciato la scomparsa del figlio adolescente. Si sospettano affiliazioni a bande di latinos, gente che va in giro a marcare il territorio con la violenza, armata di machete.
L’ispettore seguirà così una doppia indagine, come sempre aiutato dai colleghi, vecchi e nuovi, e dai consigli della figlia Giulia, che gli fa da traghettatrice nel mondo disilluso dei ragazzi di questa generazione.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Raccontò, senza farsi pregare troppo. Al rientro a casa, la notte passata, non aveva trovato il figlio a letto. Era già successo, una volta. Aveva fatto bagordi con gli amici, ripresentandosi all’alba. Questa mattina invece non era rientrato. A quanto pareva non era bastata la ramanzina della volta precedente. Il suo primo pensiero era stato che appena fosse tornato l’avrebbe riempito di botte. Perché era ora di finirla con le sue nuove compagnie. Che se lei ieri sera era con Hernandez era proprio per via del figlio. Che ha quattordici anni. E lei ventinove. Carlo Pedro Ochoa. Carlo, non Carlos, ha voluto dargli un nome italiano, è nato in Italia, deve crescere italiano. Pedro è per via del nonno. Il padre? E chi l’ha più visto! Lasciamo perdere, il mio cognome basta e avanza.
Ferraro non aveva neppure bisogno di fare domande, più che una denuncia sembrava una confessione in camera caritatis. Non aveva neanche fatto in tempo a festeggiare la sua quinceanera, che quel bavoso de mi tı´o… ma lasciamo stare. E comunque Nostro Signore se l’è portato via, sotto una macchina. Perché lei lo sa, insisteva la donna, lo sa cosa significa non avere nulla, neppure una famiglia. Ti cerchi qualcuno nel quartiere, con cui passare una serata a bere una birra, e poi qualche amica che ti presenta quello giusto, che ti dice: ci penso io a tuo figlio, mi sono sempre piaciuti los ninos. E tu ci vuoi credere perché hai sedici anni e non hai più niente da perdere, la vita ti ha già incasinato abbastanza. Lui es el jefe, ti regala collanine d’oro, vestitini scollati, quando vai in giro con lui tutti lo rispettano e tu hai bisogno di sentirti sicura e ridi delle sue scorrerie con la banda, los hermanos, finché – perché prima o poi capita
e non è come te lo immagini –, finché non li vedi in azione, che spaccano la testa a un poveraccio solo per uno sguardo di troppo, gli rompono le ossa e gli portano via pure la catenina della comunione. E allora non c’è più niente da ridere. Bestie feroci, perros locos, cani del barrio. Pura razza bastarda.
Aveva cercato Carlo dappertutto quella mattina. Neppure al lavoro era andata, aveva telefonato alla figlia della vecchina di cui si occupava, che non si sentiva bene, che era meglio non andare dalla abuelita, non sia mai che le passava qualche brutta malattia. E così, in giro, per il quartiere, come una questuante, porta a porta, con il cellulare in mano e Carlo che non rispondeva, il cliente non è raggiungibile, lasci un messaggio. Niente neppure sul suo profilo
TikTok, su quello di Instagram l’ultimo post era di due giorni prima.
Prima non era così. Aveva cresciuto Carlo nel timore di Dio. Era un bravo bambino, a scuola andava così così, un po’ timido forse, ma non ha mai avuto problemi. Al Trotter, sì. Elementari e medie. L’aveva iscritto all’alberghiero, tutti mangiano, è un lavoro sicuro, se lo vedeva bene in livrea a servire ai tavoli, e poi a lei piace cucinare il ceviche de camaro´n, ma anche i piatti della Sierra, l’hornado o le empanadas, Carlo ne va ghiotto, magari, chi lo sa, un domani col figlio potevano aprire un’attività. Che male c’è a sognare un poquito? Finché un giorno incontra per strada un compagno di scuola: non vedono Carlo da tre giorni, sta male? È stata quella la notte che non è tornato a casa. Aveva nuovi amici, le aveva detto. Sono mesi, ormai. Una famiglia che mi vuole bene. Non dire cazzate, non sai di cosa stai parlando. Chi è questa gente, di dove sono, da dove vengono? Sono hermanos. E lei che gli tira un ceffone: non parli neppure spagnolo e ora hai persino degli hermanos latinos? Lui non fa una piega, anche se la guancia si è arrossata. Le mostra il tatuaggio che s’è fatto, sul collo. Sei mia madre e io ti rispetto. Ci penso io a te, mamma, non devi più preoccuparti. Mette una mano in tasca e le lascia sul tavolo un mucchietto di euro stropicciati, neanche fossero fatti di carta straccia. Un giorno sì e uno no un regalo: vestiti, borsette firmate, gioielli. Lei non ci casca, accatasta tutto in un angolo dell’ingresso. Per me questa roba è spazzatura, capito? Perché non conosci Ramon, replicava lui. È come un padre, sarebbe l’uomo giusto per te.
C’era da farsi furba, spiegò la donna ai due sbirri. Conveniva conoscerlo, parlargli a quattr’occhi. Così un pomeriggio era andata a trovarlo nel bar dove gozzoviglia con la sua banda di ragazzini. Dobbiamo parlare, gli aveva detto. Lui la guarda e se la mangia con gli occhi. Non mi avevi detto che tua madre era tan bonita, dice Ramon a Carlo, che si dà di gomito
con gli amici, come un vero imbecille, orgoglioso di quel complimento sessista rivolto alla madre. E lei si sente morire dentro ma non lo dà a vedere. Non lì, non nel suo feudo. Meglio un posto neutrale. Una cena, da qualche parte fuori dal barrio. Magari in centro. Al ristorante Ramon s’era pure permesso delle galanterie, da uomo di mondo. Ordinava bottiglie di vino con fare da sbruffone. Chi sei, da dove vieni, come campi, che cosa vuoi da mio figlio? Ma niente, lui faceva lo svenevole, parlava dei capelli di lei, dei suoi occhi profondi. Oppure di Santo Domingo, la sua terra, del mare. Perché lui si era fatto da sé, non doveva dire grazie a nessuno. Le solite vanterie, trite e ritrite. E comunque non doveva preoccuparsi, di stare tranquilla che per lui Carlo era più di un figlio. È un ragazzo sveglio, gli sto dando una mano a crescere. A quello ci penso io, aveva risposto la madre. Una donna da sola non può fare tutto. Ha bisogno di un uomo. Un uomo vero, un uomo forte.
Comaschi ascoltava e prendeva appunti. Indirizzi, nomi, età, attività. S’informava persino dei tatuaggi, che cosa rappresentassero, se c’erano delle scritte incise sul corpo di quei ragazzini al bar. E su quello di Ramon. Al ristorante lo aveva supplicato di lasciare stare suo figlio ma lui era tanto gentile quanto indifferente a quelle parole. Ti accompagno a casa. No, gli aveva risposto. E lui, smielato: non salgo da te, non preoccuparti, solo che non lascio andare una donna per strada da sola di notte. Non si sa mai.
Com’era andata a finire Ferraro lo sapeva già. Il volto le si rigò di lacrime. Non aveva denunciato Ramon per paura della reazione del figlio. Che stupida, si diceva, picchiandosi
i pugni sulla testa. Tonta, tonta, tonta. Ora che succede se Carlo incontra Ramon e vede come è ridotto? Magari è proprio con lui ora. Il suo collega l’ha massacrato di botte. Comaschi guardò Ferraro, non comprendendo cosa intendesse dire la donna. Dopo, dopo ti spiego.
Non erano passate ventiquattr’ore dall’ultima volta che la donna aveva visto il figlio, ma quelle sono cazzate da telefilm americani. C’erano tutti gli estremi per una denuncia di minore scomparso. Che poi tornano – e questo Ferraro cercava di spiegarlo a Marisol –, fanno qualche stupidata ma poi tornano. Quasi sempre. E in quel «quasi» c’era tutta l’angoscia della madre. C’era bisogno di una foto del ragazzo e di qualunque cosa potesse servire a trovarlo: nomi
di amici, numeri di telefono, luoghi frequentati. Avrebbero avviato la pratica subito, all’istante, lei doveva solo calmarsi ora, che ci avrebbero pensato loro.
Me lo trova, vero? Mi promette che me lo trova? Piangeva e pregava. Non sono mai entrata in un commissariato, ho sempre rigato dritto, Jesu´s lo sabe, Nuestro Sen˜or lo sabe. Ho sbagliato e ho pagato, non posso pagare ancora. Me lo promette, me lo promette? E Ferraro che provava a dire la solita formula vuota – faremo tutto quello che è in nostro potere… – perché lo sapeva bene, lo sapeva benissimo che non si promette, non si promette mai, che a promettere si diventa pazzi, che questo è un lavoro, che si fa quello che si può , e poi si stacca, si va dalla famiglia, o allo stadio, o al mare, che qualcun altro ci penserà per te, che nessuno è indispensabile.
Ma lei niente, insisteva, me lo promette, vero, me lo promette?
Cosa poteva risponderle?
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it