È tutto vero, perché è finto: Ilaria Gaspari racconta “La reputazione”

di Silvia Cannarsa | 05.03.2024

"Mi interessa quanto le persone arrivino a tradire loro stesse pur di proiettare un’immagine esteriore". Abbiamo incontrato Ilaria Gaspari, che ci ha accompagnato in una passeggiata romana alla scoperta dei luoghi del romanzo "La reputazione", che si ispira a una storia vera: "Nella trama ha un ruolo centrale l’antisemitismo dormiente, una calunnia che prende una svolta violenta". Spazio al punto di vista ("Mi sconvolge che oggi si pensi che debba essere tutto vero ciò che è in prima persona... È un segno del tempo, credere a un’aderenza assoluta, identitaria..."), alla moda ("Mi incuriosisce come campo di invenzione, ma non l'ho mai seguita, sono troppo pigra") e ai personaggi protagonisti: "Di inetti maschi ne abbiamo visti tanti, ma di inette? Spesso vengono spinte sull'umoristico o sul vittimistico". Diverse le riflessioni sulla scrittura e sulla bellezza femminile...


È il piacere che guida Ilaria Gaspari, quando scrive le sue storie: il piacere di esplorare vicende che la intrighino, la divertano, la sfidino. Il piacere di affrescare scene, di apparecchiarle e farle vivere dei personaggi che lei modella e muove con grande piacere (e rieccoci!).

Succede anche in questo suo atteso nuovo romanzo, La reputazione (Guanda): tutto giocato sul senso del gusto, del disgusto (dell’assenza di gusto) e su un pettegolezzo; in dubbio serpeggiante che non sia tutto oro quello che luccica, e che anzi, quel luccichio serva solo a sviare lo sguardo da loschi traffici.

Copertina La reputazione di Ilaria Gaspari

Abbiamo incontrato a Roma Ilaria Gaspari – da anni collaboratrice del nostro sito – per farci raccontare qualcosa in più del romanzo, arrivato a nove anni dal suo esordio nella narrativa con Etica dell’acquario (Voland), e dopo la pubblicazione di una serie di saggi filosofici (e divertentissimi) – Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità – Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi), Vita segreta delle emozioni (Einaudi) -, del reportage narrativo A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa (Perrone editore) e di articoli per diverse testate, oltre  a programmi televisivi e radiofonici e a una grande passione per Marcel Proust (per Emons ha anche curato e condotto un podcast su di lui, Chez Proust).

Ma prima, un po’ di contesto

La reputazione è ambientato negli anni ‘80, in una Roma ricca, quella dei Parioli. C’è un negozietto gestito da una proprietaria eccentrica, elegante e assurda, Marie-France, il suo azzimato e misterioso braccio destro Giosuè, e alcune commesse, tra cui la voce narrante, Barbara.

Barbara è sperduta: sta scrivendo una tesi che sembra molto distante dalla conclusione, in una città che conosce poco, male e per le ragioni sbagliate, un amore finito confusamente. Marie-France, da vera pigmaliona, la prende sotto la sua ala protettrice, per lavorare nella bottega frequentata da ricche signore. Vede in lei qualcosa che nemmeno Barbara può vedere, e che chissà se c’è veramente.

Josephine, un negozietto che sembra avere un’ottima reputazione, nel quartiere, seppure qualcosa di non troppo chiaro si intraveda già dai primi scambi. Da lì a poco inaugura una zona dedicata alla “moda delle ragazzine“, sfidando l’uso delle compere con la mamma, e incentivando un diverso shopping con le amiche – forse non molto consapevole, ma sicuramente più divertente -, che in quegli anni era pura rivoluzione.

Adolescenti e moda, nugoli di “ninfette“, come le chiama Marie-France, chiacchierine o timide, prepotenti o silenziose, affollano il divano tondo e gli espositori di bauletti Naj-Oleari, mentre nel quartiere comincia a diffondersi una calunnia. Complice anche la sparizione di una ragazza dal quartiere, le maldicenze contro Marie-France, Giosuè e le tre commesse aumentano, e così la tensione dentro e fuori dal negozio. Un silenzio di tomba, prima che tutto cominci a tremare…

Ilaria Gaspari, senza anticipare le calunnie, cominciamo dalla moda: perché?
“Sono una persona estremamente frivola: ho sempre letto riviste di moda. Negli anni dell’università erano l’unica cosa che mi rilassava. Io e la mia amica Emanuela, le uniche due ragazze che frequentavano filosofia in mezzo a secchioni serissimi, ci trovavamo per leggere le riviste di moda: Vogue, Elle… Ci prendevamo delle pause, la moda era il nostro rifugio. È un incredibile campo di invenzione, ma non l’ho mai seguita, sono troppo pigra per prenderla sul serio”.

E quindi, da scrittrice, che cosa la intrigava?
“Mi appassiona il conformismo, come tema: è uno dei miei chiodi fissi. Era già nel mio primo romanzo, c’è in questo, e ci sarà nel prossimo. La cosa che mi affascina di più è quanto le persone arrivino a tradire loro stesse pur di proiettare un’immagine esteriore”.

E poi ci sono stati i suoi anni in atelier a Parigi, mentre frequentava la Sorbonne e scriveva la tesi di dottorato su Spinoza e Pascal…
“Erano anni che volevo utilizzare quel periodo nello showroom di Valentino. Non sapevo dove stavo andando. E non c’entravo davvero niente lì dentro, quando ho cominciato a lavorare. Ma è stato così che ho capito quanto mi interessassero le suggestioni narrative del mondo della moda”.

E sapeva già che questa storia si sarebbe svolta a Roma?
“Nella mia testa La reputazione era sempre stato ambientato a Parigi, poi mio marito Guido mi ha parlato per primo di una leggenda metropolitana: ragazze rapite nei camerini, a Orléans. Edgar Morin ci aveva persino scritto un libro. Un’inchiesta, perché la leggenda si portava dietro una storia vera, che era poi degenerata”.

Alcuni dei libri utilizzati nella scrittura di La reputazione. Dalla rivista Amica, all’inchiesta di Edgar Morin

Qual era l’elemento che la affascinava?
“L’aspetto dell’antisemitismo dormiente: una calunnia che prende una svolta violenta, per espellere chi viene considerato diverso. La storia di Orléans è successa l’anno dopo il 1968, in provincia. Era quasi un tentativo di rigettare certi fenomeni di costume, legati alla moda e all’emancipazione delle giovani donne. Mi sono resa conto che queste due cose erano legate, la diffidenza e l’atto di ribellione e di libertà. Era talmente tutto simbolico che mi sono detta ‘è la storia giusta’, e ho iniziato a fare delle ricerche. Pensavo di scrivere anch’io un’inchiesta, ma sentivo che non era soddisfacente per me: volevo esplorare la parte letteraria della storia, avevo bisogno della narrativa per far esplodere il suo potere metaforico”.

E lo ha trasposto negli anni ‘80.
“Era una voce che si era sparsa anche a Roma, quella dei camerini, ne parla anche Teresa Ciabatti, nel suo libro Sembrava bellezza (Mondadori). I negozi per ragazze in Italia sono arrivati tardi, rispetto alla Francia, perché la nostra è una società più conservatrice. C’era anche un mio piacere estetico. Ero piccola, però sono state le prime immagini di moda per cui ho sentito la fascinazione: quei vestiti, quegli orecchini giganti, quei capelli vaporosi. E poi, ho potuto convogliare lì un altro mio interesse: il racconto dei Parioli degli anni ’80”.

Come mai proprio Parioli?
“È un quartiere davvero affascinante. Ci sono arrivata da straniera (Gaspari è di Milano, e ha vissuto a Pisa e a Parigi, prima, ndr): costruito come una cittadella dei ricchi, è lo specchio di un mondo che è già finito. È come guardare una stella che ormai è morta.

Quartiere Coppedè è a Roma, nel quartiere Trieste, peculiare per le sue costruzioni e a poca distanza dalla zona in cui l'autrice ha immaginato la storia di La reputazione,
Quartiere Coppedè è a Roma, nel quartiere Trieste, peculiare per i suoi edifici e a poca distanza dalla zona in cui l’autrice ha immaginato la storia di La reputazione

Nel romanzo troviamo un sottobosco di domestici filippini, tate, signore delle pulizie, gente senza nome, indispensabile all’esistenza, ma che poi scompare in silenzio…
“Quella decadenza che già si annunciava è dovuta a questa ingiustizia sociale profondissima. E questo sottobosco senza nome a mandare avanti il tutto: come nel Titanic. I protagonisti del libro sono degli outcasts rispetto a tutti gli altri abitanti del quartiere, infatti il corpo sociale tende a espellerli; sono più simili al popolo dei senza nome, solo che hanno saputo farsi strada in quel mondo, e hanno acquisito una visibilità che li rende, allo stesso tempo, vulnerabili”.

Quartiere Coppedè è a Roma, nel quartiere Trieste, peculiare per le sue costruzioni e a poca distanza dalla zona in cui l'autrice ha immaginato la storia di La reputazione,
Sempre quartiere Coppedè e i suoi palazzi particolari e misteriosi

Anche Barbara, la voce narrante, rimane sempre un po’ discostata – a volte ci si dimentica anche il suo, di nome.
“Lei avrebbe la possibilità di diventare una protagonista ma non lo diventa mai. Ci sono molti romanzi che, come La reputazione, sono costruiti attorno a un protagonista che ha un fascino indecifrabile, ma non è il narratore della storia: chi racconta è una persona che mette la sua identità al servizio del protagonista; uno su tutti è, ovviamente, Il grande Gatsby“.

Come mai era così importante?
“Perché per me la calunnia è una forma di tradimento. E Barbara, nel suo nascondersi, in qualche modo tradisce”.

Oltre a Barbara ci sono tanti personaggi: Marie-France, Giosuè, Marta, Micol, le amiche Isa Cacioni e Lorelei, e pochissimi uomini in quella bottega “da donne”, di solito pronti ad acquistare un completino per le proprie amanti…
“Adoro descrivere i personaggi, mi piace inventarli, loro e le ambientazioni, immaginarmi tutto! Non è come fare un film, non devi pagare, puoi fare davvero quello che vuoi. Questa cosa mi fa impazzire: è come giocare. Mi piace che ci siano un bel fondale e personaggi molto reali e poi far succedere delle cose che sconfinano un po’ nell’impercettibilità della percezione, perché secondo me la vita è così”.

Cosa intende?
“Mi piacciono i libri che restituiscono una sensazione di vita vera. Voglio ritrovarci un senso di indefinibilità. Scrivendo, provo a restituirlo. Mi diverte raccontare la soggettività di queste percezioni, anche che ci sia una storia, un mistero, ma sempre legato a questo effetto di indefinibile percezione”.

Partiamo allora da Marie-France, la proprietaria del negozio, la pigmaliona, la Gatsby…
“È un personaggio in cui ho messo molte cose di me, e non necessariamente cose che mi piacciono. Volevo che Marie-France fosse grande dentro al libro, poi però ho corso il rischio che occupasse ogni spazio, più di quanto mi aspettassi. Ho lavorato su altri personaggi e quando definisci meglio un personaggio poi, per reciprocità, si definiscono meglio tutti quanti”.

Anche quelli più misteriosi, come Giosuè?
“L’eterno inconoscibile. Una caratteristica di uomini di un certo tempo – questa specie di segretezza che non è una forma di esclusione degli altri, o di mancanza di generosità e neanche di timidezza. Semplicemente hanno un’idea un po’ selvatica della propria vita interiore ed esteriore”.

Ogni personaggio sembra una cosa ed è sempre qualcos’altro. Tuttavia alla fine forse è proprio Barbara è il mistero più grande, una tavola bianca da scrivere: rappresenta in qualche modo la stagione della vita di ognuno di noi?
“Barbara mi fa simpatia, ma è completamente informe. Sta attraversando una fase della vita in cui può diventare qualsiasi cosa, e rischia di non diventare proprio niente. Lei sa di avere questa pulsione all’annientamento, che conosco bene, perché ce l’ho anche io. Ha a che fare con degli atteggiamenti – dalla procrastinazione a un bisogno di essere amata e riconosciuta, che viene nascosto per orgoglio. Solo che lei non capisce che, finché non avrà una fisionomia definita, nessuno la potrà riconoscere”.

È scritto in prima persona. Si identifica in Barbara?
“A me piace scrivere tutto in prima persona. Ovviamente non scrivo mai di me. La prima persona mi interessa in quanto maschera, non per svelarmi. Mi sconvolge che oggi si pensi che debba essere tutto vero ciò che è in prima persona: certo che è tutto vero, ma perché è finto! È un segno del tempo, credere a un’aderenza assoluta, identitaria tra chi narra e chi scrive. E invece scrivere è un gioco di simulazione che, paradossalmente, può essere uno strumento di svelamento. Fingendo puoi dire cose più vere. Indossando una maschera si può andare più in profondità. Barbara, ad esempio, è un’inetta…”

L'autrice Ilaria Gaspari ci racconta come è nato il suo romanzo La reputazione, passeggiando tra le vie e le vetrine che hanno ispirato le ambientazioni romane.
L’autrice Ilaria Gaspari ci racconta com’è nato il suo romanzo La reputazione, passeggiando tra le vie che hanno ispirato le ambientazioni romane

Un’inetta?
“Di inetti maschi ne abbiamo visti tanti, ma di inette? A volte ce ne sono, ma spesso vengono spinte sull’umoristico, o sul vittimistico. Amo questa libertà di costruire un personaggio femminile che non è figa, non è edificante, non è forte. Un personaggio con cui non ti vuoi identificare, ma che corrisponde a delle parti antieroiche e deboli di te. Per me è liberatorio, mi fa sentire più forte, paradossalmente perché lei non lo è. Già solo averlo espresso mi rafforza. Mi piace che lei non sia incredibilmente arrabbiata, una principessa guerriera…”.

Però è bella.
“Però è bella. Alla fine, se devo scegliermi una maschera, perché deve essere brutta?”.

E infatti di bellezza parla molto La reputazione.
“Il tema della bellezza a me appassiona. Ci sono diversi livelli del discorso che si intrecciano sulla bellezza come valore, come estetica”.

Quali, in particolare?
“C’è la bellezza come corrispondenza a una convenzione, a un canone, ma anche come un dato di fatto, fatalistico. L’aspetto più crudele è che ti colloca di qua o di là rispetto a un certo criterio. Ci sono una serie di imposizioni, sociali, soprattutto sulla bellezza femminile, che la vogliono coincidente con la fertilità e con un periodo di fecondità sessuale. Per cui invecchiare diventa crudele, come succede a Marie-France. Vivere diventa crudele proprio perché la bellezza svanisce”.

È un romanzo in cui gli avvenimenti hanno un senso simbolico: il sonnambulismo di Micol, la bellezza stessa, le processionarie che, come le calunnie, si mettono in fila e irritano la pelle, al loro passaggio…
“Quando scrivo, è come se regredissi a una modalità di pensiero simile a quella poetica. Procedo per analogie e molte volte non decido cosa scrivere. Seguo questo pensiero analogico, ed è lo stesso processo che seguo anche quando scrivo cose meno narrative e più saggistiche. Non mi sento filosofa – dal punto di vista teorico sono abbastanza scarsa – ho però una sensibilità nello sviluppo del significato come immagine, sono meno logica di quello che può sembrare. A volte le metafore sono precise e riescono a far tornare i conti, a volte no”.

Ed è proprio in questo simbolismo che si muove La reputazione, che parla di moda perché non c’è niente che più della moda racconti la rappresentazione personale, l’immagine che si vuole restituita dallo specchio. Un romanzo che parla di relazioni sociali, di pettegolezzi, di calunnie che fanno fatica a togliersi di dosso, una volta che ti si attaccano, e che potrebbe benissimo parlare di una qualsiasi shitstorm sui social media, in un barcamenarsi di quelle che ora chiameremmo fake news, e che allora erano notizie false, o leggende metropolitane, che crescono, si gonfiano, senza che nessuno intervenga anche solo per dire che no, non c’è niente di vero, se non una reputazione da infangare.

Abbiamo continuato la chiacchierata con Ilaria Gaspari durante la LibLive – i nostri incontri in diretta online – sul profilo Instagram di ilLibraio.it in dialogo con Francesca Crescentini (@tegamini).

 

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Fonte: www.illibraio.it


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