"C'è molta speranza (ma nessuna per noi)" di Nicola H. Cosentino è un romanzo che oscilla tra il personal essay e l'inchiesta, tra l'interesse per l'apocalisse e il bisogno di concentrarsi sui desideri, propri e del mondo - Su ilLibraio.it un estratto
Scrittore e critico letterario classe 1991, Nicola H. Cosentino – collaboratore dell’inserto La Lettura del Corriere della Sera e già vincitore del Premio Brancati Giovani 2018 con il romanzo Vita e morte delle aragoste (Voland, 2017), dopo Le tracce fantasma (minimum fax, 2022) torna in libreria con il romanzo C’è molta speranza (ma nessuna per noi), pubblicato da Guanda.
Il protagonista del nuovo libro di Cosentino, H, non ne può più del pessimismo che lo circonda, e nemmeno del proprio: approdato a Milano dalla provincia calabrese, ha dedicato gli ultimi anni a scrivere un saggio sulla fine del mondo, ma la Storia – tra guerre, pandemie e disastri vari – gli ha offerto troppo materiale, tanto da rendere il suo lavoro superato. Decide allora di cambiare rotta, e concentrarsi su tutt’altro: i desideri…
C’è molta speranza (ma nessuna per noi) si pone come “un inventario delle piccole cose quotidiane, in grado di cogliere l’essenza di quei momenti apparentemente trascurabili che, a pensarci bene, ci fanno vivere davvero”. Come “un romanzo che oscilla tra il personal essay, l’inchiesta e il pamphlet“. Al centro c’è un giovane uomo che ambisce non tanto a concretizzare i propri obiettivi (trovare un lavoro stabile, una casa più grande, scrivere un buon libro…) quanto a poterseli permettere.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Uomo del suo tempo
Perché lo so, chi sono. Maschio, italiano, trentadue anni, 186 cm per 70 kg, superficiale e profondissimo, individualista e generosissimo, a proprio agio con la definizione di «uomo del suo tempo» soprattutto se per «suo» s’intende «di un altro» – uomo del tempo di Banksy, per esempio, o di Sally Rooney, di Jannik Sinner, di Taylor Swift; un tempo che per ora è il secondo decennio del 2000, cuore o galleria del cosiddetto Antropocene, ma tra poco sarà il conto alla rovescia per l’apocalisse. Professione: «scrittore» dice di sé arrossendo, perché l’empireo della scrittura-e-basta si erge su una decina di cieli diversi, e perciò dice anche: «critico letterario, giornalista, correttore di bozze, editor, standista, scout, bookstagrammer, ghostwriter, copywriter, revisore di traduzioni, marchettaro, consigliere a titolo gratuito, modello delle mani che sfogliano i libri, risolutore encomiabile di cornici concentriche, interprete turnista del celebre aforisma di Joseph Conrad ‘Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo…’ eccetera, moderatore, relatore, sognatore». Tutto contemporaneamente, disperatamente. Ha una madre, un padre, una compagna, un fratello, l’automobile nera più sporca di Milano, una casa in affitto col prezzo bloccato all’era pre-Covid, tre piante – monstera, sansevieria, pothos – in perenne stato di calamità, un aneddoto eccellente con cui vince ogni gara di figure di merda e una friggitrice ad aria grazie alla quale inganna un’alimentazione fortemente limitata da una tendenza alla ipercolesterolemia.
Ah, e da qualche parte conserva la mappa per un avvenire luminoso (che comincia quando, esattamente?).
Grazie al cazzo, dottore
«Forse, perché questo avvenire cominci» ha osservato il mio psicologo, «deve riconsiderare il suo rapporto con la letteratura. Ringraziare i libri per ciò che le hanno dato e porli sotto una nuova luce. Smettere di usarli come freccia, e iniziare a farne un arco. Capisce cosa intendo?»
«Che devo smettere di scrivere? Che devo trovarmi un lavoro vero?»
«Non sarei così drastico, H. Però… Non sempre quello che vogliamo, o meglio, la forma in cui lo vogliamo, è quello che ci rende felici. Ha mai pensato di fare letteratura insegnando letteratura? A scuola?»
«Sì, certo. Sarebbe molto bello.»
Lui mi ha guardato con un sorriso che intendeva mettere un punto alla questione. «E allora ha trovato un nuovo modo di canalizzare la sua vocazione.»
«Eh, magari, dottore. Non posso.»
«Lei crede di non potere. Ma può. Si sente in ritardo, si sente colpevole. Ma non lo è. Provi a dirsi: lo desidero e me lo merito. Provi a dirsi: non sono un impostore.»
«Ma lo sarei, se provassi a insegnare lettere.»
«Perché? È preparato, empatico, giovane. Ha a cuore la materia. Ha voglia di riscatto. Le serve un lavoro stabile. Perché vuole continuare a mettere degli ostacoli fra lei e la realizzazione dei suoi sogni?»
«Per un motivo semplice, dottore.»
«Che sarebbe?»
«Io sono laureato in Scienze Politiche.»
E poi
E poi, dopo gli studi, ho trovato impiego presso l’apocalisse. Non nel senso che sono diventato un profeta, o il Cavaliere della carestia, ma più semplicemente che ho dedicato i migliori anni della mia giovinezza a pensare alla fine del mondo, intesa prima come rappresentazione e poi come realtà in divenire. Di Apocalisse a poco a poco ho già detto, provo a spiegare meglio il resto, con l’aiuto di due istantanee dall’ultimo decennio, riportate in ordine non cronologico.
The End is the Beginning is the End
La prima mi ritrae affacciato alla finestra di casa, a Milano, all’alba di un giorno di inizio aprile del 2020. Sto rispondendo alle domande di un conduttore radiofonico in qualità di esperto di « letteratura dell’allarme », cioè di romanzi distopici e post-apocalittici. Il solo che abbiano trovato, suppongo. L’intervista dura quindici minuti. Fra le poche domande che il conduttore mi pone, quella d’esordio è, ovviamente: «Ci spiega che cos’è una distopia?»
La so. Il termine «distopia» si deve alla combinazione, pare a opera del filosofo John Stuart Mill, del prefisso dis, che segnala qualcosa di negativo e malfunzionante, con la parola topos, luogo. Opportunamente traslitterati, dis e topos derivano entrambi dal greco antico, e aiutano Mill a rovesciare, per la prima volta nella storia, il concetto di «utopia». Una distopia è, quindi, il contrario di un paradiso, lo scenario peggiore possibile o, come ha scritto Arrigo Colombo, «il modello di una società perversa». E nei romanzi viene spesso utilizzata come dispositivo d’allarme, un bengala che avverta il lettore di un pericolo in avvicinamento.
«E siamo stati avvertiti, di questa pandemia?» mi chiede lo speaker. «Qualche romanzo l’aveva prevista?»
Il quesito, esplicito, ne contiene un altro, implicito: Se sì, come andrà a finire? Guardo l’incrocio sotto casa, il semaforo giallo che lampeggia a vuoto. Riflesso nel vetro della finestra c’è il nostro tavolo da pranzo, e sul tavolo da pranzo il pc di Alzata Con Pugno, che a breve si sveglierà, compirà il solito percorso in venti passi dal letto al bagno, dal bagno alla cucina e dalla cucina a questo tavolo, dove, vestita da sirena della quarantena – busto da donna-là-fuori, leggings e infradito da donna-qua-dentro –, si metterà gli auricolari e farà pazientemente il suo nella gestione dell’emergenza per l’azienda in cui lavora.
«No» ammetto. «Nessun romanzo lo aveva previsto.»
Qualche minuto più tardi l’intervista finisce e parte, non a caso, The End is the Beginning is the End degli Smashing Pumpkins. Rocco ha messo la sveglia alle cinque per sentirmi, e mentre Billy Corgan canta «We can watch the world devoured in its pain» pensa bene di scrivermi – senza entrare nel merito del discorso, perché il merito del discorso è la morte: «Orgoglioso di te. E pure di me. Mai ascoltato una trasmissione tanto noiosa così a lungo».
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it