Cercas: “Perché a lungo mi sono rifiutato di scrivere ‘L’impostore’, fino a quando…”

di Redazione Il Libraio | 19.09.2015

"Per più di sette anni mi sono rifiutato di scrivere questo libro...". Javier Cercas, grande scrittore e saggista spagnolo, è appena tornato nelle librerie italiane. E qui svela perché, dopo tante resistenze, ha finalmente deciso di raccontare la storia de "L'impostore"...


Javier Cercas, scrittore e saggista spagnolo classe ’62, docente di letteratura spagnola all’Università di Girona e autore di libri come Soldati di Salamina, La velocità della luce, Il moventeLa verità di Agamennone, La donna del ritratto, e Anatomia di un istante, solo per citarne alcuni, torna nelle librerie italiane, sempre per Guanda, con L’impostore.

Su ilLibraio.it proponiamo, per gentile concessione dell’editore, le prime pagine del libro, in cui l’autore svela perché, dopo anni di resistenze, ha finalmente deciso di raccontare questa incredibile storia…

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Io non volevo scrivere questo libro. Non sapevo esattamente perché non volessi scriverlo, oppure lo sapevo ma non volevo riconoscerlo o non osavo riconoscerlo; o non del tutto. Il fatto è che per più di sette anni mi sono rifiutato di scrivere questo libro. Durante quel periodo ne ho scritti altri due, anche se questo non l’avevo dimenticato; al contrario: a modo mio, mentre scrivevo quei due libri, scrivevo anche questo. O forse era questo libro che a modo suo scriveva me.

I primi paragrafi di un libro sono sempre gli ultimi che scrivo. Questo libro è finito. Questo paragrafo è l’ultimo che scrivo. E siccome è l’ultimo, ormai so perché non volevo scrivere questo libro. Non volevo scriverlo perché avevo paura. È questo che sapevo fin dall’inizio, ma che non volevo riconoscere o che non osavo riconoscere; o non del tutto. Quello che so soltanto adesso è che la mia paura era giustificata.

Conobbi Enric Marco nel giugno del 2009, quattro anni dopo che era diventato il grande impostore e il gran maledetto. Molti ricorderanno ancora la sua storia. Marco era un ottuagenario di Barcellona che per quasi tre decenni si era fatto passare per deportato nella Germania hitleriana e per sopravvissuto ai campi nazisti, aveva presieduto per tre anni la grande associazione spagnola dei sopravvissuti, la Amical de Mauthausen, aveva tenuto centinaia di conferenze e concesso decine di interviste, aveva ricevuto importanti onorificenze ufficiali e aveva fatto un discorso al Parlamento spagnolo a nome di tutti i suoi presunti compagni di sventura, finché, agli inizi di maggio del 2005, si era scoperto che non era un deportato e che non era mai stato prigioniero in un campo nazista. La scoperta l’aveva fatta un oscuro storico di nome Benito Bermejo, giusto prima che venisse celebrato, nell’ex campo di Mauthausen, il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di sterminio, in una cerimonia alla quale per la prima volta avrebbe partecipato un presidente del governo spagnolo e in cui Marco avrebbe svolto un ruolo importante, al quale all’ultimo momento la rivelazione della sua impostura lo costrinse a rinunciare.

Quando conobbi Marco avevo appena pubblicato il mio decimo libro, Anatomia di un istante, anche se non mi trovavo in un buon momento. Nemmeno io ne capivo il perché. La mia famiglia sembrava felice, il libro era un successo; è vero che mio padre era morto, ma era morto da quasi un anno, un tempo sufficiente a metabolizzare la sua perdita. Il fatto è che, non so come, un giorno arrivai alla conclusione che la colpa della mia tristezza era del libro appena pubblicato: non perché mi avesse lasciato esausto sia fisicamente sia mentalmente (o non solo); anche (o soprattutto) perché era un libro strano, un singolare romanzo senza finzione, un racconto rigorosamente reale, privo del minimo conforto di invenzione o fantasia. Pensavo che fosse stato quello a distruggermi. Mi ripetevo in continuazione, come uno slogan: «La realtà uccide, la finzione salva». Nel frattempo combattevo a fatica l’angoscia e gli attacchi di panico, andavo a letto piangendo, mi svegliavo piangendo e passavo le giornate a nascondermi dalla gente, per poter piangere.

Decisi che la soluzione era scrivere un altro libro. Sebbene non mi mancassero idee, il problema stava nel fatto che perlopiù erano idee per racconti senza finzione. Ma avevo anche idee per storie di finzione; soprattutto tre: la prima era un romanzo su un professore di metafisica dell’Università Pontificia di Comillas che si innamorava pazzamente di un’attrice porno e finiva per andare a Budapest per conoscerla di persona, dichiararle il suo amore e proporle di sposarlo; la seconda si intitolava Tanga ed era l’episodio pilota di una serie di romanzi polizieschi il cui protagonista era un detective di nome Juan Luis Manguerazo; la terza riguardava mio padre e iniziava con una scena in cui lo facevo resuscitare e ci sbafavamo uova fritte con chorizo e cosce di rana al Figón, un ristorante della Cáceres della sua giovinezza dove più di una volta avevamo mangiato insieme.

Cercai di scrivere queste tre fiction: feci fiasco con tutte e tre. Un giorno mia moglie mi diede un ultimatum: o chiedevo un appuntamento a uno psicoanalista o lei chiedeva il divorzio. Andai di corsa dallo psicoanalista che lei stessa mi aveva raccomandato. Era un uomo calvo, distante e sinuoso, con un accento non identificabile (a volte sembrava cileno o messicano, altre catalano, o forse russo), che i primi giorni continuò a rimproverarmi perché mi ero presentato nel suo studio in articulo mortis. Ho passato la vita a prendermi gioco degli psicoanalisti e delle loro fantasmagorie pseudoscientifiche, ma mentirei se dicessi che quelle sessioni non servirono a nulla: almeno mi offrirono un posto dove piangere senza ritegno; mentirei anche se non confessassi che più di una volta fui sul punto di alzarmi dal divano e prendere a pugni lo psicoanalista. Il quale, per il resto, cercò di condurmi subito a due conclusioni. La prima era che la colpa di tutte le mie disgrazie non andava attribuita al mio romanzo senza finzione o racconto reale, bensì a mia madre, il che spiega perché spesso uscivo da quello studio con la voglia di strangolarla non appena l’avessi rivista; la seconda conclusione era che la mia vita era una farsa e io un commediante, che avevo scelto la letteratura per condurre un’esistenza libera, felice e autentica e invece ne conducevo una falsa, schiava e infelice, che ero uno che si atteggiava a romanziere e vinceva barando e ingannava tutti, ma in realtà non ero che un impostore.

Quest’ultima conclusione finì per sembrarmi più verosimile (e meno comoda) della prima. E mi fece ricordare di Marco; di Marco e di una lontana conversazione su Marco in cui mi avevano chiamato impostore.

Qui devo tornare indietro di qualche anno, al momento in cui scoppiò il caso Marco. Si scatenò uno scandalo la cui eco raggiunse gli estremi confini del pianeta, ma in Catalogna, dove Marco era nato e vissuto quasi sempre, e dove era stato una persona molto popolare, la scoperta della sua impostura suscitò un’impressione più forte che altrove. Perciò è logico che, fosse anche solo per questo, avesse interessato anche me. Ma non era stato solo per questo; inoltre, il verbo «interessare» è insufficiente: più che interessarmi al caso Marco, ciò che accadde fu che concepii immediatamente l’idea di scrivere su di lui, come se avvertissi che in Marco c’era qualcosa che mi riguardava profondamente. Quest’ultima sensazione mi preoccupava; mi provocava anche una specie di vertigine, un’apprensione indefinita. La verità è che, finché sui mezzi di comunicazione durò lo scandalo, divorai tutto quello che fu scritto su Marco, e quando seppi che alcune persone a me vicine conoscevano o avevano conosciuto Marco o avevano prestato attenzione al personaggio, le invitai a pranzo da me per parlare di lui.

Il pranzo si svolse a metà maggio 2005, quando il caso era scoppiato da poco. In quel periodo insegnavo all’Università di Gerona e vivevo in un quartiere periferico della città, in una villetta a schiera con giardino. Che io ricordi, all’incontro parteciparono, oltre a mio figlio, mia moglie e mia sorella Blanca, due colleghi della facoltà di Lettere: Anna Maria Garcia e Xavier Pla. Mia sorella Blanca era l’unica tra noi che conoscesse bene Marco, perché anni prima era stata insieme a lui nel consiglio direttivo della FAPAC, un’associazione di genitori di alunni della quale per molto tempo erano stati entrambi vicepresidenti: lei per la circoscrizione di Gerona; Marco per quella di Barcellona. Con sorpresa di tutti, durante il pranzo Blanca descrisse un vecchietto affascinante, iperattivo, civettuolo e spiritoso, che moriva dalla voglia di comparire nelle foto, poi, senza prendersi la briga di nascondere la simpatia che in quel periodo le aveva ispirato il grande impostore e gran maledetto, parlò dei progetti, delle riunioni, degli aneddoti e dei viaggi che aveva condiviso con lui. Anna Maria e Xavier non conoscevano personalmente Marco (o lo conoscevano soltanto in maniera superficiale), ma entrambi avevano studiato l’Olocausto e le deportazioni e sembravano appassionati al caso quanto me: Xavier, un giovane professore di letteratura catalana, mi prestò diversi testi riguardanti Marco, tra i quali i due racconti biografici più completi pubblicati su di lui; da parte sua Anna Maria, una storica veterana che non aveva smarrito l’elevato concetto di responsabilità etica nel quale erano stati educati gli intellettuali della sua generazione, aveva amici e conoscenti nella Amical de Mauthausen, l’associazione di deportati che Marco aveva presieduto, e proprio a Mauthausen aveva partecipato da poco, un paio di giorni prima che scoppiasse il caso Marco, alle celebrazioni del sessantesimo anniversario della liberazione dei campi nazisti, dove aveva saputo in anteprima della scoperta dell’impostura di Marco e dove, inoltre, era stata a cena con Benito Bermejo, lo storico che l’aveva appena smascherato. Nei miei ricordi, quel pomeriggio, mentre parlavamo di Marco nel giardino di casa mia, Xavier e io eravamo soprattutto perplessi; Blanca oscillava tra la perplessità e il divertimento (anche se a tratti cercava di dissimulare il divertimento, forse per non scandalizzarci); Anna Maria era soltanto indignata: ripeteva in continuazione che Marco era uno svergognato, un bugiardo compulsivo e privo di scrupoli che si era preso gioco di tutti ma specialmente delle vittime del crimine più spaventoso della storia.

A un certo punto, come se di colpo si fosse resa conto di un’evidenza drammatica, Anna Maria mi disse, trapanandomi con lo sguardo: «Senti, dimmi una cosa: perché hai organizzato questo pranzo? Perché ti interessi a Marco? Non starai pensando di scrivere di lui?».

I tre bruschi interrogativi mi presero alla sprovvista, e non seppi cosa rispondere; la stessa Anna Maria mi salvò dal silenzio.

«Guarda, Javier» mi avvertì, serissima, «quello che bisogna fare con Marco è dimenticarlo. È la peggiore punizione per quel mostro di vanità.» Subito dopo sorrise e aggiunse: «Perciò basta parlare di lui: cambiamo argomento».

Non ricordo se cambiammo argomento (credo di sì, anche se soltanto per un po’; Marco tornò subito a imporsi), però ricordo che non osai riconoscere in pubblico che l’intuizione di Anna Maria era giusta e che stavo pensando di scrivere di Marco; non osai nemmeno spiegare alla storica che, se alla fine avessi scritto di Marco, non l’avrei fatto per parlare di lui ma per cercare di capirlo, per cercare di capire perché avesse fatto quello che aveva fatto. Giorni dopo (o forse fu quello stesso giorno) lessi sul País una cosa che mi ricordò il consiglio o l’avvertimento di Anna Maria. Era una lettera al direttore firmata da una certa Teresa Sala, figlia di un deportato a Mauthausen e appartenente lei stessa alla Amical de Mauthausen. Non era la lettera di una donna indignata, ma piuttosto imbarazzata e mortificata; diceva: «Non credo che dovremmo cercare di capire i motivi dell’impostura del signor Marco»; diceva anche: «Soffermarci a cercare giustificazioni per il suo comportamento significa non comprendere e disprezzare l’eredità dei deportati»; e ancora: «A partire da adesso, il signor Marco dovrà convivere con il suo disonore».

Questo diceva Teresa Sala nella sua lettera. Era esattamente il contrario di quello che pensavo io. Io pensavo che il nostro primo dovere fosse capire. Capire, naturalmente, non significa assolvere o, come affermava Teresa Sala, giustificare; anzi: significa il contrario. Il pensiero e l’arte, pensavo io, cercano di esplorare ciò che siamo, rivelando la nostra infinita, ambigua e contraddittoria varietà, cartografando così la nostra natura: Shakespeare o Dostoevskij, pensavo io, illuminano i labirinti morali fino ai loro ultimi meandri, dimostrano che l’amore è in grado di condurre all’assassinio o al suicidio e riescono a farci provare compassione per psicopatici e malvagi; è loro dovere, pensavo io, perché il dovere dell’arte (o del pensiero) consiste nel mostrarci la complessità dell’esistenza al fine di renderci più complessi, nell’analizzare come funziona il male, per poterlo evitare, e perfino il bene, forse per poterlo imparare. Tutto questo pensavo, però la lettera di Teresa Sala rivelava una pena che mi commosse; mi ricordò anche che, in Se questo e`un uomo, Primo Levi, riferendosi ad Auschwitz o alla sua esperienza ad Auschwitz, aveva scritto: «Forse quanto è accaduto non deve essere capito, nella misura in cui capire significa giustificare». Capire significa giustificare? mi ero domandato anni prima, quando avevo letto la frase di Levi, e mi domandai allora, quando lessi la lettera di Teresa Sala. Non è invece nostro dovere? Non è indispensabile cercare di capire tutta la confusa diversità della realtà, da ciò che è più nobile a ciò che è più abietto? O forse quell’imperativo generico non vale per l’Olocausto? Mi sbagliavo e non dovevo cercare di capire il male estremo, e tanto meno qualcuno che, come Marco, inganna con il male estremo?

Queste domande mi ronzavano ancora in testa una settimana più tardi, a una cena fra amici in cui, a quanto avrei ricordato anni dopo, quando il mio psicoanalista mi avrebbe portato alla conclusione che ero un impostore, mi chiamarono impostore. La cena si svolse a casa di Mario Vargas Llosa, a Madrid. A differenza del pranzo a casa mia, quell’incontro non era stato organizzato per parlare di Marco, ma inevitabilmente finimmo per parlare di lui. Dico inevitabilmente non solo perché tutti noi che vi partecipammo – soltanto quattro persone, oltre a Vargas Llosa e a sua moglie, Patricia – avevamo seguito con più o meno attenzione il caso, ma anche perché il nostro ospite aveva da poco pubblicato un articolo in cui salutava con ironia il geniale talento di Marco e gli dava il benvenuto nella confraternita degli affabulatori. Siccome l’ironia non è il forte dei farisei (o siccome il fariseo approfitta di qualunque opportunità di scandalizzarsi esibendo la sua falsa virtù e attribuendo agli altri falsi peccati), alcuni farisei avevano risposto con irritazione all’articolo di Vargas Llosa, come se quest’ultimo nel suo testo avesse elogiato le menzogne del grande impostore, ed è probabile che la conversazione del dopocena arrivò a Marco per via di quella polemica artificiosa. Comunque fosse, per un bel pezzo parlammo di Marco, delle menzogne di Marco, del suo incredibile talento per le frottole e la rappresentazione, di Benito Bermejo e della Amical de Mauthausen; ricordo anche che parlammo di un articolo di Claudio Magris, pubblicato sul Corriere della Sera e intitolato «Il bugiardo che dice la verità», in cui venivano citate e discusse alcune osservazioni di Vargas Llosa su Marco. Naturalmente, io ne approfittai per raccontare quello che avevo scoperto sulla questione grazie a Xavier, ad Anna Maria e a mia sorella Blanca, e a un certo punto Vargas Llosa interruppe la mia esposizione.

«Ma Javier!» esclamò, bruscamente agitato, spettinandosi di colpo e indicandomi con due braccia perentorie. «Non ti rendi conto? Marco è un tuo personaggio! Devi scrivere di lui!».

Il focoso commento di Vargas Llosa mi lusingò, ma per qualche motivo che allora non compresi mi mise anche a disagio; per nascondere la mia imbarazzata soddisfazione continuai a parlare, dissi che Marco non solo era affascinante in sé, ma anche per ciò che rivelava degli altri.

«E` come se tutti avessimo qualcosa di Marco» mi sentii dire, ormai partito in quarta. «Come se tutti fossimo un po’ impostori.»

Tacqui e, forse perché nessuno seppe come interpretare la mia affermazione, calò un silenzio strano, troppo prolungato. Fu allora che accadde.

Tra i commensali di quella cena c’era Ignacio Martínez de Pisón, mio amico e scrittore conosciuto da chi lo conosce per la sua temibile franchezza aragonese, che ruppe l’incantesimo con un commento demolitore: «Sì: soprattutto tu».

Tutti risero. Anch’io, ma meno: era la prima volta nella vita che mi chiamavano impostore; anche se non era la prima volta che mi mettevano in relazione con Marco. Pochi giorni dopo che scoppiasse il suo caso, avevo letto sul quotidiano El Punt (o su un aggregatore di notizie su Internet creato dal Punt) un articolo in cui lo facevano. S’intitolava «Bugie», e l’autrice Silvia Barroso vi diceva che il caso Marco l’aveva sorpresa mentre leggeva un mio romanzo in cui il narratore annuncia la sua decisione di «mentire su tutto, soltanto per raccontare meglio la verità». Aggiungeva che io ero solito esplorare nei miei libri i limiti fra la verità e la menzogna e che in qualche occasione mi aveva sentito dire che, a volte, «per arrivare alla verità, bisogna mentire». Barroso mi identificava con Marco? Insinuava che anch’io ero un imbroglione, un impostore? No, per fortuna, perché subito dopo aggiungeva: «La differenza fra Cercas e Marco è che il romanziere ha licenza di mentire». Però, mi chiesi in silenzio quella sera, in casa di Vargas Llosa, e Pisón? Scherzava e il suo proposito era soltanto farci ridere e sbloccare la conversazione, oppure il suo scherzo rivelava la sua incapacità di nascondere la verità dietro quello schermo che chiamiamo buona educazione? E Vargas Llosa? Cosa aveva voluto dire quando aveva detto che Marco era un mio personaggio? Anche Vargas Llosa pensava che io fossi un impostore? Perché aveva detto che io dovevo scrivere di Marco? Pensava forse che nessuno potesse scrivere di un impostore meglio di un altro impostore?

Finita la cena, passai ore e ore a rigirarmi nel letto del mio albergo di Madrid. Pensavo a Pisón e a Silvia Barroso. Pensavo ad Anna Maria Garcia e a Teresa Sala e a Primo Levi e mi domandavo se, dato che capire significa quasi giustificare, qualcuno avesse il diritto di cercare di capire Enric Marco e giustificare così la sua menzogna e alimentare la sua vanità. Mi dissi che Marco aveva già raccontato abbastanza bugie e che quindi non si poteva più arrivare alla sua verità attraverso la finzione, ma soltanto attraverso la verità, attraverso un romanzo senza finzione o un racconto reale, privo di invenzione e di fantasia, e che tentare di costruire un simile racconto con la storia di Marco era una missione destinata al fallimento: prima di tutto perché, come ricordai che aveva scritto Vargas Llosa, «la vera storia di Marco probabilmente non verrà mai conosciuta» («non sapremo mai l’intima verità di Enric Marco, la sua necessità di inventarsi una vita» aveva scritto anche Claudio Magris); e in secondo luogo per ciò che diceva Fernando Arrabal in un paradosso del quale ugualmente mi ricordai: «Storia del bugiardo. Il bugiardo non ha storia. Nessuno si azzarderebbe a fare la cronaca della menzogna né a proporla come una storia vera. Come raccontarla senza mentire?» Perciò era impossibile raccontare la storia di Marco; o, almeno, era impossibile raccontarla senza mentire. Allora, a che scopo raccontarla? A che scopo cercare di scrivere un libro che non poteva essere scritto? A che scopo proporsi un’impresa impossibile?

Quella notte decisi di non scrivere questo libro. E quando lo decisi mi accorsi di essermi tolto un peso di dosso.

(continua in libreria…)

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Fonte: www.illibraio.it


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