Un estratto dal nuovo inquietante romanzo del 37enne Adam Thirlwell, ambientato in un futuro prossimo...
Adam Thirlwell, londinese classe ’78, è considerato uno dei migliori “nuovi” narratori britannici. Guanda, che ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Politics, La fuga e Mademoiselle O, ora porta nelle librerie italiane Tenero & violento, libro a tratti inquietante ambientato in un futuro prossimo, nei sobborghi di una megalopoli globale, dove l'”eroe” del romanzo si sveglia in una camera d’albergo accanto a una donna che non è sua moglie Candy, ma la loro comune amica Romy, bionda, alta, e fino ad allora solo desiderata. L’imbarazzo si trasforma in angoscia quando un’analisi più attenta rivela che la ragazza è immersa in una pozza di sangue…
Su ilLibraio.it il primo capitolo
(per gentile concessione di Guanda)
- MADAMA MORTE
S A N G U E
in cui il nostro eroe si sveglia
Svegliandomi ho visto alla rovescia una fila di dipinti su velluto appesi alla parete dietro il letto. Un Gesù sopra la sua aureola e accanto una Madonna radiosa (intendo quella della religione, non la versione disco). Tra i due c’era una spiaggia tropicaleggiante: una palma, una palma, una palma, della sabbia azzurra. Ho pensato che forse mi piacevano, quei dipinti su velluto. Mi piaceva la loro vibe radiosa. Ma sapevo che anche se mi piaceva non era la vibrazione della mia solita camera da letto, proprio come la ragazza che dormiva accanto a me in quella che sembrava una stanza d’albergo non era la mia felice mogliettina. Era una di quelle situazioni problematiche; e anche se so che alcuni non la troverebbero poi così male – e che svegliarsi accanto a una persona che eticamente non ti appartiene è per la maggior parte degli esseri umani il modo più comune di entrare nel regno della morale e perciò, bello mio, fattene una ragione – comunque io non riuscivo a prenderla tanto alla leggera. Era un pezzo ormai che c’erano problemi nell’atmosfera: piccole incrinature e crepe, come farfalle che spuntano fuori in pieno autunno, un leggero tropicalismo diffuso che mi faceva un po’ paura. Per di più in quel momento mi sentivo come se avessi la testa altrove, e avevo una gran nausea. Sapevo che il telefono doveva essere da qualche parte accanto a me e sapevo che avrei dovuto cercarlo con lo sguardo ma, davvero, anche no. Se in quel preciso istante mi avessero piazzato sul divano di un talk show e mi avessero chiesto come mi sentivo, avrei detto che di base mi sentivo molto triste. Perché io non sono certo un panzer o un teppista. Non sono uno sciupafemmine. Le ragazze mi hanno sempre intimidito. In questo ruolo di turbomacho ero autentico quanto le ragazzine bianche che si fanno fotografare in pose da gangsta. Non era proprio normale per me svegliarmi in un posto senza sapere come c’ero arrivato. Per me un passatempo normale era occuparmi di problemi matematici o di sistemi elettorali; i miei svaghi, voglio dire, erano sempre delicati e meditativi. Eppure questa cosa nuova stava proprio succedendo, e non avevo il potere di fermarla. Avevo un gran mal di testa. A Brasilia stavano smontando dal turno di notte, a Tokyo bevevano il primo whisky sour. A quattromila miglia di distanza c’erano droni che rombavano in formazione tra gole e passi di montagna, e quaggiù sulla quieta terra una ragazza che non era mia moglie se ne stava sdraiata accanto a me. Si chiamava Romy ed era una delle mie migliori amiche. Era bionda e quando la vedevi in un bar aveva questa sontuosa massa languida di capelli su un lato del collo, ma ormai avevo la consapevolezza interiore che non era una bionda naturale. Non che avesse molto pelo in mezzo alle gambe, ma quel poco, giusto un ciuffetto, era decisamente scuro. Era su questo che cercavo di concentrarmi mentre la luce iniziava a friggere le tende di nylon e Romy continuava a dormire. Perché anche quando sei confuso o triste, devi tirare avanti. Ricordo una massima del bodhisattva – Calmo ma partecipe – ed è una massima che va sempre bene. Di sicuro è una regola a cui ispirarsi nella vita, e regole simili vanno sempre tenute in considerazione. Se dovessi dimostrare una sola cosa scrivendo questo resoconto, spero sia l’importanza delle regole nella vita; e forse è proprio questo il motivo per cui ho deciso di iniziare la storia della mia vita morale con questo episodio sanguinoso. È stato, credo, il punto in cui sono scomparse le mie categorie abituali. Mi sono alzato e rivestito, e mi sono fermato a riflettere su come sarei tornato a casa: cioè, in che stato e con quali spiegazioni. Ma era anche prestissimo. Era al tempo stesso troppo tardi e molto presto, perciò ho deciso che tanto per cominciare avrei fatto colazione, perché a volte l’unica maniera corretta di agire è prendersi cura dell’ordinaria amministrazione. Le cose vanno analizzate per gradi. Perciò sono uscito nel parcheggio e ho tirato dritto fino al ristorante del l’albergo, dove mi sono seduto a un tavolo da cui avevo una vista molto luminosa. Niente di speciale. Insetti che ronzavano lenti nell’alba
verde, sbucando di continuo dal nulla, dall’aria chiara e granulosa. La mia macchina era nel parcheggio, davanti alla nostra porta, e accanto ho visto quello che sembrava un carro funebre, ma non gli ho dato peso. E forse è stato un errore ignorare quello che altri avrebbero considerato un segno. Se per te è normale ricevere a casa lettere non affrancate o telefonate in cui un tizio ti chiede se sta parlando con la camera ardente, cioè se sei sensibile ai metodi della mafia per far sapere che uno è segnato o fregato o spacciato, allora forse si potrebbe dire che ho commesso un errore. Avessi saputo allora quel che so adesso, fossi stato in grado di comprendere la gamma completa di orrori che avrei conosciuto, il sangue e la balistica, fossi stato capace di compiere il giro della morte che questa maniera di parlare mi consente ora, sarei potuto arrivare anch’io alla stessa conclusione. Invece mi sono sempre lasciato sfuggire le cose più ovvie. Non so perché. Altri notavano cose qualunque come i parcheggi dei centri commerciali e gli ombrelloni dei bar o che so io, il caffè delle macchinette per il caffè. Ma io no. Io ero più bravo a occuparmi delle mie ruminazioni. Era molto luminoso e molto triste, dentro il ristorante. La radio parlava da sola mentre io non avevo nessuno con cui parlare, perciò sono rimasto lì seduto al mio tavolo con vista sulla griglia vuota del parcheggio, a leggere il menu plastificato. Ho aspettato. Ho guardato fuori dalla vetrata. Per dieci minuti ho continuato a guardare prima l’orologio e poi il paesaggio: orologio e paesaggio, orologio e paesaggio. Aspettare proprio non mi piace. Finalmente dalla cucina è spuntata una cameriera. Con il nome appeso al taschino. Il nome era Quincy. Un’altra spilla in un altro font mi augurava una magnifica giornata. Ed era una magnifica giornata, niente da dire. Magnifica come in un cartone animato, se non ti eri svegliato in uno stato di ansia vischiosa.
« Sono dieci minuti che aspetto » ho detto.
« Come? » ha detto Quincy.
« Non è un reclamo ufficiale. Penso solo che dovresti sapere che sono arrivato dieci minuti fa. Tutto qui. »
« Ah. »
Non credo che le importasse granché, ma almeno avevo cercato di rendermi utile. Ho ordinato una colazione vegetariana. Le ho detto che prendevo le uova all’occhio di bue, per usare la vecchia metafora. Che il succo lo volevo all’arancia. Che sì, mi andavano anche le crocchette di patate. Ho mangiato la roba con gusto. Ci ho aggiunto ketchup e senape. E quando ho finito, dopo aver passato un pezzo di pane tostato nel piatto rosso e giallo, ho sfregato le lenti degli occhiali con una salvietta umidificata che Quincy aveva portato perché mi pulissi le dita. Gentile da parte sua, perché spesso la gente ha le mani piene di germi. È sempre meglio essere prudenti. Adesso gli occhiali sapevano di pulito, ma in compensomi bruciavano gli occhi. Ho guardato fuori le linee orizzontali dell’elettricità, poi le linee orizzontali dipinte sull’asfalto. Poi ho guardato la segnaletica verticale. Ecco, il mondo era così, completamente vuoto. Mi sentivo molto in trappola e molto triste. Anche se con il senno di poi è chiaro che non ero nemmeno vagamente triste quanto avrei dovuto, perché a posteriori so che il Fato stava per massacrarmi ancora più duramente di quanto avesse già fatto. Il Fato era tutto intorno a me come il tappo a corona in cima a una bottiglia di birra. Ma alla fine non è mai chiaro a che punto uno può parlare di a posteriori o di troppo tardi, perché anche se sembrano espressioni normali nascondono molto più di quanto è utile, tant’è che uno dei problemi principali del vivere è che in qualsiasi momento di sconforto uno di solito pensa di aver toccato il fondo, e così, come chiunque, anch’io tendevo a credere che non ci fosse niente di peggio dello stato di sfinimento in cui mi trovavo, proprio mentre invece ero dentro qualcosa di molto più devastante per il mio ideale di cortesia e magnanimità, ero dentro a una giostra infernale, tipo quelle del luna park, dove avrei conosciuto cose grottesche e feroci che non avrei mai pensato di dover nemmeno prendere in considerazione, e a quel punto non mi sarebbe più importato niente di saperlo prima. Mentre lì, in quell’albergo, ero affranto.
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it