Il giornalista Ferdinando Cotugno debutta con la sua prima opera narrativa, "Tempo di ritorno - Una storia di clima e di fantasmi", definita "un’autobiografia climatica" - Su ilLibraio.it un toccante estratto dal memoir, dedicato al rapporto con il padre ("Per te è inconcepibile che un essere umano non sia in grado di guidare"...)
Nato a Napoli nel 1982, il giornalista Ferdinando Cotugno, autore di saggi come Italian Wood (Mondadori, 2020) e Primavera ambientale – L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022), debutta con la sua prima opera narrativa, Tempo di ritorno – Una storia di clima e di fantasmi, un memoir che si presenta come “un’autobiografia climatica“: “Anche se l’ecologia è stata il centro della mia vita e il cambiamento del clima è una delle mie paure più grandi”, scrive infatti Cotugno, “la mia famiglia è stata un tempo una piccola nazione fondata sui combustibili fossili, un minuscolo emirato napoletano del carbone e del gasolio…”.
In statistica, il tempo di ritorno è la probabilità che un evento estremo si verifichi. È il tempo che ci mettono a ripresentarsi i grandi traumi, gli amori, gli scudetti, gli attacchi di panico, i messaggi che disperatamente aspettiamo, le ondate di calore, le alluvioni. La crisi climatica, con le sue catastrofi a distanza sempre più ravvicinata, ci ha trasformato in una società post-traumatica di massa. Nel libro di Cotugno (curatore della newsletter e del podcast Areale per Domani, e conduttore del podcast Ecotoni, dedicato ai boschi italiani), però, il tempo di ritorno è anche il viaggio a ritroso del protagonista nella storia della sua famiglia: il nonno operaio all’Italsider, il padre camionista, la madre che passa dagli studi umanistici alla gestione di una ditta di trasporti. Una storia di carbone e gasolio che nasce e riannoda i suoi fili nella zona industriale di Napoli, e si fa parabola per raccontare l’Italia intera dal dopoguerra a oggi.
“Non è una storia di clima ma, come ogni storia, è anche una storia di clima“. Due generazioni che si ritrovano: quella dei padri che hanno lottato per uscire dalla povertà e costruire un piccolo benessere, e quella dei figli che quel benessere lo hanno ereditato, assieme a un mondo sul punto di collassare. Per l’autore, infatti, solo se impariamo ad abitare questa contraddizione e riconosciamo di essere compromessi in prima persona con il processo che sta conducendo la Terra all’inabitabilità, possiamo provare a sovvertire quello che sembra un destino già tracciato.
Questo libro è dunque il racconto in prima persona, “struggente e a tratti ironico”, del “viaggio nella storia delle nostre famiglie, nel paesaggio industriale di Napoli, di Milano, del mondo globale”; per ricordarci che “l’ecologia è l’amore di chi non ha alternative. Non abbiamo un altro posto dove andare, ma abbiamo delle storie da cui partire per immaginare un futuro, magari non perfetto, ma possibile”.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal quarto capitolo:
Bagnoli, 2023
Sono passati già sessant’anni dalle nuotate per pescare coke di fronte al cantiere, è un’estate del nuovo millennio, non lo sappiamo ancora ma il 2023 risulterà l’anno globalmente più caldo affrontato dalla civiltà umana, e poi sarà superato dal 2024, e poi da chissà quanti altri. Luigi è di nuovo qui, a Bagnoli, nel suo vecchio quartiere, insieme a me. In questi sei decenni è diventato adulto, si è sposato, è diventato mio
padre, ha cambiato quartiere, sono nato io, lui ha cambiato di nuovo quartiere, io sono cresciuto, me ne sono andato via, sono tornato a casa, e lui è diventato vecchio, ha divorziato e si è risposato. Nel frattempo le distanze tra noi sono rimaste incolmabili e il mondo è scivolato lungo il suo piano inclinato verso il collasso, senza che trovassimo granché a cui aggrapparci o da dirci.
Oggi siamo padre e figlio, ben oltre la fine di quella rivoluzione industriale italiana del carbone e dell’acciaio, seduti in auto di fronte alla fabbrica di suo padre, smantellata e dismessa da trent’anni, perché secondo la logica del capitalismo non serviva più produrre a Bagnoli. L’imprenditoria di Stato che aveva industrializzato il quartiere dei bagni era stata sostituita dall’ortodossia liberista che fa spostare le produzioni dove è più conveniente per il capitale, nella ricerca permanente di forza lavoro a buon mercato come erano i napoletani degli anni ’50. Decide il mercato. Il decennio di Reagan e Thatcher si era concluso con lo spegnimento del fuoco a Bagnoli, quando io finivo le elementari gli operai hanno dovuto cercarsi altro da fare e in gran parte hanno lasciato il quartiere.
Mio padre tiene la sua Citroën grigia lercia come una discarica, l’auto più sporca di tutta Italia: sotto il tappetino una volta ho trovato cenere di sigaro, quattro euro e venti centesimi in monete, l’opuscolo di una chiesa evangelica, un cd senza custodia di Fiorella Mannoia. Non ho fatto domande. Da tempo lui ha abbassato l’asticella dell’igiene personale e ha smesso di vedere i detriti che si accumulano nella sua vita. Io sono il passeggero, o forse sono anche io un detrito, o entrambe le cose, sia figlio che costo irrisolto.
Questa è una città che non apprezza la discrezione. La gente che se ne sta per conto proprio, come noi ora davanti alla fabbrica, ispira sospetti. Chi passa rallenta, ti guarda, si fa domande. A Napoli risolversi questioni personali in luoghi pubblici senza il contributo della comunità degli estranei è un tradimento. Non esistono liti private in pubblico. Essere introversi come te e me a Napoli è un supplizio. Temo che qualcuno venga a chiederci: che state facendo fermi davanti all’Italsider? Non so cosa risponderei, non sarebbe facile spiegarlo. Mettiamola così: tu, papà, sei stato un soldato di questa vicenda umana di combustione e collasso, io sono sia il soldato che il disertore. Non è un merito il mio, né una colpa la tua. È solo che siamo nati in punti diversi del tempo umano, tu nell’epoca in cui si poteva inquinare senza pensieri, io in quella in cui si doveva per forza iniziare a smettere.
Non avevamo mai fatto una cosa del genere insieme. È come provare a togliersi una crosta secolare, indistinguibile dalla chimica della nostra pelle.
Ti ho chiesto: Mi porti a vedere il posto dove sei nato? Tu, una mattina di molte settimane dopo, hai accostato davanti al muro di cinta dell’Italsider, che è ancora in piedi, l’ultimo muro italiano del Novecento, a difesa di niente che non siano scheletri, ferraglia e vegetazione spontanea. Hai frenato male, inchiodando, mi hai sorpreso, ti ho guardato allargando le braccia, come se volessi proteggermi e allo stesso tempo formularti una domanda: Che succede, pa’.
Ho provato a seguire il consiglio del barista: ascoltare molto, parlare poco. Anche nel tuo ultimo involucro fragile, sei l’automobilista più affidabile che conosca. Se c’è una cosa che sai fare, che sai davvero fare, è guidare. Se dovessi farlo per salvarci la vita scappando in auto da un incendio o una rivolta, troveresti ancora il modo, facendo slalom tra umani e macerie, ma in questo momento, davanti alla vecchia fabbrica di tuo padre, hai frenato come un neopatentato senza sensibilità nei piedi o dello spazio.
Per te è inconcepibile che un essere umano non sia in grado di guidare. Tutti sanno già guidare, devono solo stare calmi e ricordarsene. È come nuotare, camminare o respirare. Avevo cinque anni quella volta che mi hai tenuto in braccio mentre eri al volante, una domenica lungo un viale vuoto nell’altra zona industriale di Napoli, il quadrante orientale di raffinerie e capannoni tra la stazione, San Giovanni a Teduccio e Barra, dove sorgeva il terminal petroli. Era l’area industriale dove andavi a lavorare ogni giorno, opposta e simmetrica a quella di tuo padre. La Napoli dei professionisti, dei ristoranti e dell’oleografia era, oggi come allora, in mezzo tra le due ali produttive, a succhiare il lavoro di entrambe per garantire lo stile di vita di notai, commercialisti, avvocati, dentisti, cardiologi, professori, cuochi e proprietari di alberghi. Per gioco, quella volta avevi lasciato il volante, ci avevi appoggiato le mie mani. Mi hai terrorizzato, ho ritratto le dita come se scottasse, sono scoppiato a piangere. In quel momento, se non l’amore, ho dissolto almeno parte del tuo entusiasmo. Volevi iniziarmi alla guida come avevano fatto con te per l’acqua: vai e nuota. Non ero adatto a quello stile educativo e ti ho privato di un pezzo di gioia dell’essere padre nel momento in cui hai scoperto che può esistere un figlio che non prova alcuna euforia, nemmeno teorica, a tenere i comandi di un veicolo a motore, e che quel figlio era toccato proprio a te.
A che serve avere un maschio se non vuole guidare la tua macchina già a cinque anni? A nuotare ho dovuto imparare da solo, e l’ho fatto da adulto, perché temevi che avessi la stessa reazione con l’acqua, e forse non avresti retto. Quando ho raggiunto l’età, davvero hai provato a insegnarmi a guidare direttamente in autostrada, di nuovo come a te avevano insegnato a stare in mare, come una cosa che si ricorda e non come una cosa che si impara. Pensavi che il pericolo e la velocità mi avrebbero aiutato a ricordare più in fretta. Avevo alle spalle cinque guide con la scuola, avevo appena capito come si usa la frizione, e abbiamo imboccato l’autostrada salendo su una rampa che mi era sembrata l’accesso diretto all’aldilà. Non era più un gioco, non avevo idea di quello che stavo facendo, ma nemmeno tu, stringevo il volante così forte che mi hai detto: guarda che non cade, poi ho sbagliato la traiettoria di ingresso al casello, me l’hai corretta con uno strattone della mano sinistra sul volante, come un istruttore pazzo. Abbiamo rischiato di ammazzarci, quel giorno, non so come siamo sopravvissuti.

Dalla volta successiva mi sono rivolto a mamma, che tratta le automobili come andrebbero trattate, cioè come armi, strumenti di morte, di cui fare uso solo se strettamente necessario. Per te no, papà, per te la morte è al massimo la sosta dopo il viaggio. La potenza di calcolo della tua mente, quando leggi il traffico di tre corsie davanti ai tuoi occhi, andrebbe studiata in un laboratorio. Ci si potrebbero vincere delle guerre. In quel momento sei padrone di te e del cosmo, un monarca illuminato che non ha bisogno di andare troppo veloce né troppo piano.
Da anni provavo a spiegare confusamente il mio progetto a chiunque avesse la pazienza di ascoltare: un giorno vorrei scrivere la storia di mio padre, compilare insieme a lui la genealogia familiare delle fonti di energia, l’araldica inorganica di gasolio e carbone dalla quale discendiamo io, questo paese, e la civilltà umana in generale. I miei interlocutori annuivano, come si fa con i pazzi che nelle città ad agosto diventano vistosi e loquaci. Io stesso mi sono trattato così, ho procrastinato, è passato un anno, poi ne sono passati due, mentre quelli che erano stati i tuoi generali di un tempo in questa guerra fossile continuavano a trivellare, pompare, vendere, scambiare, manomettere la verità e nessuno sembrava più nemmeno pensare di sapere come si ferma una cosa così, il precipizio di una specie che getta le basi per la propria estinzione votandola nei consigli di amministrazione di un centinaio di aziende pubbliche, private o metà e metà.
Poi la realtà si è intromessa, ricordandomi una verità che è alla base del nostro rapporto col clima come con le famiglie: il tempo a nostra disposizione è limitato.
Sei stato tu a smuovermi, perché alla fine hai deciso di andartene per sempre, come dicevi da decenni, e lo fai proprio ora che sei così vecchio e malandato. Non ce la fai più a fare sei mesi a Napoli e sei in Brasile. Me l’hai comunicato come comunichi tu le novità improvvise, come ovvietà che qualcuno doveva pur dire ad alta voce…
(continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it