“Cosa sarebbe successo se…”: Brigitte Giraud e il bisogno di trovare un senso al lutto

di Elena Marinelli | 27.04.2023

"Vivi veloce" (libro vincitore del Premio Goncourt 2022) di Brigitte Giraud è la storia delle due realtà della perdita – quella che rimane e quella che non si verifica – raccontate in prima persona dall’autrice che elabora un linguaggio per continuare a realizzare l’accaduto: sono i "se" che la guidano in partenza nel racconto. Una serie di "se" che ripercorrono i fatti e le recriminazioni ad esso collegati. Il romanzo si presenta così come il tentativo di dare una struttura logica al lutto, per cercare di rendere intellegibile una situazione assurda...


Nella dimensione del dolore causato da una perdita ci sono spesso due incontri: quello con la realtà che rimane e quello con la realtà che non si verifica. Sono l’una l’ombra dell’altra e nella vita di chi si confronta con un lutto non riescono a starsene in disparte e portano con sé una serie di linguaggi – del corpo, dell’assenza, del racconto di cosa è accaduto – di cui non si può fare a meno, anche se non si desiderano.

Chi perde qualcuno può anche non parlarne, può anche non scriverne, ma di certo non può fare a meno di ritrovarsi a usare locuzioni e oggetti che hanno a che fare con una struttura di significato ben precisa.

Esiste poi una dimensione specifica per ogni tipo di perdita; esiste anche per quella causata da un evento traumatico, che modifica la realtà che rimane e quella che non si verifica in un colpo netto, spesso scioccante e per questo molto lungo da elaborare.

Vivi veloce Brigitte Giraud

La vita di Brigitte Giraud cambia quando suo marito Claude muore in un incidente con la motocicletta, in una circostanza precisa e con una fiammata sulle prime inafferrabile: devono traslocare in una nuova casa e la casa diventa il punto centrale di tutta la questione: “è al cuore di ciò che ha provocato l’incidente”.

Vivi veloce di Brigitte Giraud (Guanda, 2023, traduzione italiana di Marcella Uberti-Bona) è la storia delle due realtà della perdita – quella che rimane e quella che non si verifica appunto – raccontate in prima persona dall’autrice che elabora un linguaggio per continuare a realizzare l’accaduto: sono i «se» che la guidano in partenza nel racconto. Una serie di se che ripercorrono i fatti e le recriminazioni ad esso collegati: “Se non avessi voluto vendere l’appartamento. Se non mi fossi intestardita a vedere quella casa. Se mio nonno non si fosse suicidato quando avevamo bisogno di soldi. Se non ci avessero dato le chiavi di casa in anticipo”.

I se cominciano la storia, le danno quasi una motivazione per essere raccontata ma sono anche il ponte linguistico – e rappresentativo – tra la realtà che rimane e quella che non si verifica; ogni conseguenza dei se esposti è sempre la stessa: Claude non sarebbe morto. E dunque in un caso, l’autrice racconta cosa resta della loro vita insieme e interrotta bruscamente (la mancanza), nell’altro disegna la perdita insieme a ciò che appartiene al futuro e non succederà mai (è la stessa mancanza).

Lo spazio della casa, che è motore della narrazione e convinzione profonda e ossessiva che senza di essa non ci sarebbe stato alcun incidente, alcun dolore o perdita e in definitiva questa storia così come è stata raccontata, è anche lo spazio che ospita tutti i pezzi della narrazione e che fa da sfondo ai se che l’autrice inanella per trovare un senso al lutto.

Scrive l’autrice: “Ritrovo la litania dei ‘se’ che mi hanno ossessionato per tutti questi anni. E che hanno fatto della mia vita un’ipotesi mai realizzata” e ancora: “Quando si verifica una tragedia, torniamo sui nostri passi, ripercorriamo i luoghi, ci dedichiamo alla ricostruzione. Vogliamo comprendere l’origine di ogni gesto, di ogni decisione. Riavvolgiamo il nastro mille volte. Diventiamo specialisti del causa/effetto. Tracciamo, dissecchiamo, sezioniamo”.

I se non accolgono solo circostanze puntuali attorno alle azioni di Claude, o sue, ma affondano in una concatenazione di cause ed effetti che sembra vogliano suggerire un’ipotesi precisa: c’è un insieme di fatti e di scelte che ognuna per sé concorrono a creare una circostanza e se questa definisce una cesura nella vita, un prima e un dopo inconfutabili, allora anche i fatti e dunque ciò che li ha provocati ne sono parte. E deve esserci un luogo per questi, un posto emblematico e per lei è di certo la casa.

Una volta elencati tutti i se, il libro prosegue descrivendoli uno per uno, approfondendone gli aspetti cruciali e in questo modo leggiamo la storia che si allarga nella narrazione e si colora. Entriamo negli anni di pensieri – messi in fila per ossessione e probabilmente bisogno – che l’autrice ha fatto sull’accaduto e nelle sfumature che ha dato ai perché e ai come. È una lettura che segue una logica sequenziale, e al tempo stesso una certa intimità, grazie alla quale scopriamo ad esempio che la ricerca della nuova casa in cui andare ad abitare, da lei fortemente voluta, ha avuto un valore emotivo e personale molto deciso: ha occupato pomeriggi interi, ha dato luogo a “una forma latente di lotta di classe”, ha ridefinito il centro delle discussioni casalinghe con Claude, ha prodotto un accanimento e la prima ossessione di questa storia.

La realtà che non si verifica è anche quella delle diverse situazioni in cui Brigitte compie una scelta e ovviamente ne esclude un’altra e riesce a trovare una spiegazione a ogni tipo di movimento emotivo, a ogni azione che fa e a quella relativa che non fa: “Eppure, continuavo a dirmi: ora lo chiamo. Era in quel momento che avrei dovuto chiamare. Quel colpo di telefono, ma non potevo saperlo, quel colpo di telefono avrebbe cambiato il corso delle nostre esistenze”.

Alla luce dell’accaduto quelle decisioni hanno un significato amplificato e nel renderlo più ampio, l’autrice riesce ad abbracciare contesti e convinzioni che appartengono alla collettività, a un contesto sociale e storico specifico degli anni in cui il racconto si svolge (il 1999): ad esempio, fa un accenno ai concetti di genitorialità del periodo, che lega all’accaduto perché Claude va a prendere suo figlio a scuola oppure al legame di Brigitte con la famiglia o ancora a come e quando è stata commercializzata la Honda CBR 900 Fireblade con cui Claude ha l’incidente, una moto destinata al commercio in Europa e non in Giappone.

Per due terzi del racconto, l’autrice incasella le circostanze, finché sposta la lente completamente su Claude, sulla sua giornata-tipo e rivisita tutto ciò che avrebbe dovuto fare, se non avesse scelto di salire sulla motocicletta. Non è esplicito, ma il momento in cui anche a Claude si addossa qualche recriminazione diventa, all’occhio esterno di chi legge, la condizione principale: in fondo il gesto principale, il gesto ultimo che fa da sfondo alle circostanze è questo. Tutte le altre condizioni, senza questa, non avrebbero avuto il peso che hanno avuto. Da questo punto in avanti, la lettura si sposta, e fa un’accelerazione, focalizzandosi su Claude, e arrivando a una conclusione: “Tutto questo Claude non l’ha mai saputo, ma la lista sarebbe lunga se mi mettessi a enumerare tutto ciò che ha ignorato del mondo e che ha continuato a girare senza di lui”.

Nel ricostruire la faccenda, Brigitte Giraud trova una serie di colpe, realizza per se stessa un cammino impervio, fatto di tante scelte che risultano sbagliate e ne restituisce al marito defunto una sola, ma chiave. Essenziale. La realtà che rimane somiglia in questo modo a un tentativo di trovare una giustificazione alle scelte di chiunque entri in questa storia, soprattutto a quella di Claude, e le domande che non sono soddisfatte sono inique, brutali: “Ci sono solo domande sbagliate“.

Vivi veloce tenta di dare una struttura logica alla perdita, per cercare di rendere intellegibile una situazione assurda, e in questo processo il dolore viene quasi messo da parte: appare in fondo, senza crogiolarsi troppo. È più importante seguire il prima, il durante, i segni dell’incidente che l’autrice ripercorre, per giungere all’unica fine possibile.

Fonte: www.illibraio.it


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