Con "Una buona madre", Catherine Dunne sceglie la via del romanzo corale per trattare temi molto delicati: famiglia, amicizia, maternità, amore e sopraffazione, consenso e abuso, tutela dei minori e delle donne incinte... Le protagoniste sono donne che appartengono a generazioni diverse, ma hanno lo stesso desiderio: vivere liberamente la propria maternità, dentro o fuori una famiglia tradizionale. Accanto a loro, altre donne, capaci di slanci di generosità, di comprensione e di rispetto...
Generazioni di donne animano il nuovo romanzo corale di Catherine Dunne, Una buona madre, edito da Guanda, con la traduzione di Ada Arduini.
La celebre scrittrice irlandese, che già si è cimentata con intrecci complessi, mettendo al centro il mondo femminile, porta in questa sua nuova opera un crogiuolo di temi delicati.
Tanto per cominciare, Una buona madre mostra l’universo sfaccettato che si cela dietro al termine famiglia: la sua concezione cambia almeno in parte attraverso il tempo, passando da un’Irlanda cattolicissima e moralista, che “non perdona i cosiddetti ‘figli illegittimi’ e certamente non le ‘donne perdute’” (p. 110) a un presente almeno in apparenza meno giudicante e più laico.
Sul piano del passato, scopriamo le storie di ragazze che, cacciate dalla famiglia perché incinte, vivono rinchiuse in istituti per ragazze madri e i loro bambini, con la complicità della Chiesa e dello Stato. Poco contava se le ragazze fossero state vittima di raggiri o addirittura di abusi: la società le riteneva colpevoli (“Segretezza e vergogna, a braccetto”, (p. 262). Pertanto, non meritavano i loro bambini, che venivano poi venduti all’estero o subivano sorti peggiori in laboratorio (ricorderete la notizia sconvolgente del 2017 relativa al ritrovamento di circa ottocento neonati sepolti in una cisterna sotterranea nella contea di Galway).
Affidandosi ai documenti e a inchieste recenti, Catherine Dunne ambienta in uno di questi istituti, il St Brigid, la storia della giovanissima Maeve, che, quando partorisce la sua piccola, ha ben chiara una cosa: non farà come le sue compagne, non lascerà che le suore le strappino dalle braccia la sua bambina, Belle. “Quella nuova ragazza, traboccante di sfida, energia e rabbia, sarebbe sopravvissuta” (p. 66): dovremo aspettare di assistere ad altre tristi vicende tra le mura del St Brigid, prima che si verifichi un gesto di generosità che sfiora l’incredibile. Sì, perché in una società che indossa il paraocchi esistono slanci in grado di cambiare per sempre il destino di alcuni dei personaggi di Una buona madre.
Se da un lato seguiamo quindi la vicenda di Maeve e della sua piccola, dall’altro scopriamo la famiglia di Tess, tra passato e presente: sua madre Betty e suo padre Jack l’hanno responsabilizzata fin da subito, lasciandole spesso il compito di badare ai suoi sei fratelli e sorelle. Se per i genitori era normale passarsi i vestiti cuciti da Betty di generazione in generazione, per Tess dietro a quegli abiti stinti si celava una verità: “Troppi bambini, troppo pochi soldi. Niente di tutto questo era colpa sua: ma allora perché doveva essere lei a pagarne il prezzo?” (p. 149).
Forse per questo per anni ha ricacciato l’idea di diventare madre, ma nelle prime pagine del romanzo scopriamo che nella sua famiglia è sempre lei a curarsi dei due figli, Aengus e Luke, mentre il marito Mike è spesso assente per lavoro. Anzi, all’inizio del romanzo scopriamo che il diciannovenne Luke, da sempre il più ribelle e il meno prevedibile, deve aver commesso qualcosa di grave, perché la polizia lo porta via per interrogarlo. Ma cosa è successo davvero a quella festa a casa di amici?
Parte da questa domanda lo sconvolgimento di Tess e della sua famiglia: “È tutto vero, pensa Tess. È piena di qualcosa che somiglia allo stupore. Sta succedendo davvero a noi” (p. 58). Da un lato, la donna vuole rassicurare sua madre Betty, ormai anziana e rimasta vedova da poco; dall’altro, una strana inquietudine si fa strada in lei, più aumentano i silenzi e le ritrosie di Luke. Da sempre bravo a manipolare la verità a suo vantaggio, Luke tiene un comportamento ambiguo, che alimenta i sospetti di tutti. Persino il fratello Aengus, spesso in conflitto con lui, capisce la gravità della situazione.
Così noi lettori passiamo dal voler scoprire cosa sia successo alla festa e il reale coinvolgimento di Luke in fatti gravissimi (che si spiegheranno via via), alla curiosità verso le vite delle varie protagoniste che si avvicendano nel romanzo: Betty, Maeve, Tess, Eileen, Joanie,… I diversi capitoli, narrati dal punto di vista di una di loro, ci catapultano attraverso il tempo (dagli anni Sessanta fino a oggi) e lo spazio (specialmente tra Irlanda e Gran Bretagna).
Occorre una precisazione: in questo romanzo esistono personaggi maschili, certo, Luke su tutti, e ad esempio Aengus avrà anche un capitolo focalizzato su di lui, ma sono senza dubbio le donne a muovere i fili della narrazione. E parliamo di fili non a caso, perché alcune di loro sono grandi ricamatrici e sarte. Hanno saputo partire (talvolta ripartire) da ago e filo – strumenti tradizionalmente associati al mondo femminile – per costruire una loro libertà d’espressione o per dar vita a episodi di emancipazione sociale ed economica.
Le convenzioni, tanto care a gran parte delle famiglie irlandesi qui raccontate, vengono superate nel passato tanto quanto nel presente in nome di legami ben diversi:
“Qui i gradi di separazione non significano nulla: zia, madre, prozia, matrigna. I loro sono legami d’amore. Sono state cucite insieme, con dei punti pensati per non essere disfatti, mai”. (p. 303)
E, manco a dirlo, come in una colorata coperta patchwork, anche nel romanzo i diversi riquadri con le storie singole si giustappongono e solo alla fine si scopre che Catherine Dunne aveva preparato per noi un disegno unitario, fittamente interrelato. D’altra parte, l’autrice affida all’ormai anziana Betty una riflessione che potremmo leggere anche come una nota metanarrativa:
Mi piace il modo in cui le spirali della memoria mi attirano, si collegano l’una all’altra come una lenta e attenta cucitura a rovescio, e tutto quel che è successo allora si avvicina sempre di più a tutto quel che succede adesso.
È come se non ci fosse separazione tra passato e presente, nessuna vera linea di confine. In un certo senso, il passato ha messo radici dentro di me, insiste perché io gli dedichi la dovuta attenzione, non importa quanto cerchi di concentrarmi sul presente.
E non mi concedo mai di pensare al futuro.
Non voglio mettere alla prova il destino. (p. 86)
Alla fine della lettura, ci sarà chiaro che non si può etichettare Una buona madre come romanzo familiare; dentro c’è molto altro: incontriamo il tema del consenso, come viene vissuto un abuso, scopriamo la realtà di questi istituti di detenzione per ragazze madri e bambini nati “dal peccato”, ci muoviamo tra pregiudizi e forme di apertura… In ogni caso, emerge con prepotenza quanto le donne abbiano percorso e tutt’ora percorrano un cammino in salita per affermare il loro diritto di essere madri solo se vogliono, con chi vogliono e alle proprie condizioni. Accanto a loro, spesso altre donne offrono aiuto e si mostrano ben più sagge della società di cui fanno parte.
Fonte: www.illibraio.it