Yoko Tawada racconta gli esseri umani attraverso le “memorie di un’orsa polare”

di Noemi Milani | 03.01.2018

Yoko Tawada con "Memorie di un'orsa polare" scrive una saga familiare a tre voci, quelle di una stirpe di orsi che vivono a contatto con gli uomini. La matriarca addestrata per diventare una stella del circo e relegata poi a un lavoro d'ufficio e che decide di scrivere un'autobiografia che diventa bestseller; sua figlia Tosca che scandalizza il mondo esibendosi in uno spettacolo in cui bacia la sua addestratrice. E infine Knut, baby idolo dello zoo di Berlino, cresciuto da un umano. Una storia di orsi, antropomorfizzati nelle emozioni, che in fondo parla al lettore degli esseri umani...


Siamo orsi o umani? Questa è la domanda che sorge al lettore alle prese con Memorie di un’orsa polare di Yoko Tawada, in libreria per Guanda nella traduzione di Alessandra Iadicicco. Si tratta di un romanzo tripartito, una saga familiare a tre voci, quelle di orsi che vivono a stretto contatto con gli uomini, con lo scopo di procurare loro emozioni. Divertimento soprattutto, ma anche affetto.

La scrittrice giapponese, che dagli anni Ottanta vive in Germania, scrive una storia umana che percorre i decenni dall’epoca dell’Urss e della Ddr fino agli anni Duemila. I protagonisti, però, sono tre orsi. La matriarca, russa, addestrata per diventare una stella del circo e relegata poi a un lavoro d’ufficio. Così a contatto con gli uomini e le umane questioni da decidere di scrivere un’autobiografia che diventa ben presto un bestseller.

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Yoko Tawada e la statua di Knut

Tosca, sua figlia, anche lei circense, ma nella Germania dell’Est, sconvolge il pianeta con uno spettacolo scandaloso, che culmina con un bacio alla sua addestratrice, nonché biografa. Donna e orsa comunicano tra loro in sogno e suggellano un legame unico, che sono incapaci di replicare con i loro simili. L’umana, infatti, vede il suo matrimonio con un collega calare a picco, l’orsa invece sembra aver perso i suoi istinti naturali, incluso quello per la maternità.

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Knut

E poi c’è Knut, l’ultimo erede di una stirpe di orsi antropomorfizzati almeno per quel che riguarda le emozioni. Rinnegato dalla madre, impegnata nell’arduo compito di scrivere le sue memorie, viene cresciuto da un umano nello zoo di Berlino. E diventa una celebrità, superando in fama madre e nonna. Piccolo e indifeso, fa breccia nei cuori degli umani e diventa un baby divo a cui spetta una fine triste – non a caso incontra e fa amicizia con il fantasma di Michael Jackson.

Una storia di orsi, tre dei quali realmente esistiti – difficile non ricordare il piccolo orsetto Knut, salito alla ribalta nel 2006 perché primo della sua specie in oltre trent’anni a essere sopravvissuto in cattività senza la madre – che descrive, attraverso una scrittura lieve e sognante, gli umani. A partire dagli addestratori, i primi bipedi entrati nella vita delle due orse, e dall’addetto dello zoo Matthias, che ha fatto da genitore al piccolo Knut, fino al pubblico per cui i tre membri della famiglia si esibiscono.

Ma umani sono anche le paure e i desideri di cui Yoko Tawada fa portatori gli orsi. Knut e il bisogno di compiacere, forse strategia per colmare il vuoto lasciatogli dalla madre; la matriarca e la sua smania di evasione che la porta in Canada, lontana dal ricordo dell’addestratore Ivan, che le ha insegnato a camminare su due zampe con dolore, e dall’Urss che la vuole punire con il confino in Siberia per il successo della sua autobiografia. E poi c’è Tosca, schiacciata da una madre dalla fama ingombrante e da un figlio a cui spetta un futuro ancora più strabiliante, che prima si fa strumento della sua addestratrice e poi si nasconde nell’anonimato.

Una storia di animali colmi di umanità, capace di parlarci della realtà grazie a un’aura di fantastico che ricorda i maestri della letteratura giapponese.

Fonte: www.illibraio.it


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