“Scrivere in italiano ha compromesso molti aspetti della mia vita”: Jhumpa Lahiri si racconta 

di Jolanda Di Virgilio | 17.09.2018

"Tutto il libro ruota attorno al tentativo di superare una barriera, di colmare una distanza. Il problema delle radici e dell'appartenenza è sempre stato centrale, fin dalla mia infanzia". In occasione dell'uscita di "Dove mi trovo", ilLibraio.it ha intervistato Jhumpa Lahiri, già vincitrice del Premio Pulitzer con "L’interprete dei malanni": "Per me scrivere in italiano è stato un rischio non solo letterario, ma anche concreto, perché ha compromesso molti aspetti della mia vita. Prima con l'anticipo di un libro potevo sistemare la mia famiglia per un paio d'anni, adesso non è più così. Ho preso una decisione artistica, creativa, estetica. Ma almeno è come se rimanessi legata all'Italia, e questo è per me il significato di un luogo". Tanti i temi affrontati nel colloquio con l'autrice scrittrice statunitense di origine indiana: "L'imprevisto è sempre possibile e bisogna imparare a non arginare la solitudine come se fosse una malattia"


Dove mi trovo (Guanda), il nuovo libro di Jhumpa Lahiri, è la storia di una donna che ha fatto della solitudine il proprio mestiere. Una donna che non riesce a creare legami permanenti con nessuno, se non con i luoghi che abita ogni giorno: i ponti, le piazze, i bar, i negozi, la piscina che l’accoglie e le stazioni che ogni tanto la portano più lontano, a trovare la madre, immersa in un dolore senza rimedio dopo la morte del padre. La città non è solo lo spazio in cui si articola la sua vita, ma un interlocutore vivo, custode di tutti i suoi ricordi. Eppure, nonostante questo, la donna avverte il bisogno inspiegabile e contraddittorio di andare via, di lasciare quei luoghi tanto amati: perché Dove mi trovo è prima di tutto una storia di abbandono, di confini che vengono oltrepassati, di nuove identità.

Non è un caso che sia il primo romanzo dell’autrice scritto in italiano. Nata a Londra da genitori bengalesi e cresciuta a Rhode Island, Jhumpa Lahiri si è trasferita a Roma per un lungo periodo, e attualmente vive e insegna a Princeton. Ha scritto sette romanzi (tutti pubblicati da Guanda) e ha vinto nel 2000 il premio Pulitzer con L’interprete dei malanni.

ilLibraio.it l’ha intervistata.

La voce narrante di questo libro è una donna di 45 anni, una donna di mezza età, che vive un periodo della vita in cui tutto sembra immobile ma, allo stesso tempo, tutto sembra cambiare di continuo. Nella vita cosa la spaventa di più, l’immobilità o il cambiamento?
“Trovo che entrambi i concetti siano terrificanti. Perché se siamo immobili vogliamo cambiare, e viceversa. Questo è il conflitto principale che vive la protagonista: oscilla continuamente tra il desiderio di non cambiare, di rimanere, di non spostarsi, e la necessità di scappare, di fare il salto, di cadere. Il libro indaga proprio quest’esitazione, il momento in cui bisogna compiere un passo e la paura delle novità”.

La protagonista viene subito caratterizzata come una donna sola. La solitudine che vive è l’elemento principale che la contraddistingue, nel rapporto con se stessa, con gli amici, con i genitori, con gli amanti. Che valore ha per lei imparare a stare da soli?
“Per me ha prima di tutto un valore creativo, perché, in quanto scrittrice, ho bisogno di una solitudine assoluta per creare. A parte la scrittura, però, credo che sia una condizione comune a tutti ma che, allo stesso tempo, sia ancora una sorta di tabù. Soprattutto per le donne”.

Anche in Occidente?
“Sì, se una donna sceglie di non sposarsi, di non avere figli, di vivere la sua vita senza legarsi a qualcuno, suscita sempre una sorta di biasimo. Come se avesse fallito. Voglio instaurare un rapporto sano con la solitudine perché, anche se sono sposata, anche se ho due figli e tanti amici con cui condividere la mia vita, non si sa mai. L’imprevisto è sempre possibile e bisogna imparare a non arginare la solitudine come se fosse una malattia. Soprattutto in un periodo come questo, in cui siamo sempre connessi e, quando siamo soli, praticamente non ce ne accorgiamo neanche”.

Più che la protagonista, i personaggi centrali del libro sono i luoghi: il marciapiede, la sala d’attesa, la cassa del supermercato, lo studio dell’analista. Proprio attraverso di essi riaffiorano ricordi, frammenti che permettono al lettore di ripercorrere alcuni momenti importanti della vita della donna. Cosa rappresentano?
“Sono la morfologia della sua solitudine. Rappresentano quello che la protagonista prova. Ho visto di recente una mostra di Luigi Ghirri, in cui erano esposte foto scattate tra gli anni ’70 e ’80. Tutte ritraevano dei luoghi, abitati o disabitati, che riuscivano a trasmettere l’anima di una spiaggia, di un parco, di una strada. Ovviamente questo libro è nato prima, ma avevo già assistito a una mostra di Ghirri, e anche allora mi avevano colpito le foto dello studio di Morandi: il suo letto, gli oggetti che usava per dipingere. È il significato dello spazio che mi interessa scoprire e attraverso questo romanzo ho voluto proprio incorniciare degli spazi”.

I luoghi sono anche l’unica cosa che permette alla protagonista di non essere mai completamente sola: “So che questo quartiere mi vuole bene”, dice a un certo punto. Eppure, alla fine, decide di lasciare la sua città. Una città da cui, come lei stessa dichiara, non si è mai allontanata. Da cosa scatta questa decisione?
“Perché c’è altro”.

Che cosa?
“Forse l’attaccamento a un luogo è limitante per questa donna che vorrebbe scoprire cose nuove e diverse. Tutto il libro ruota attorno al tentativo di superare una barriera, di colmare una distanza. Per la protagonista è una sfida importante, ma lo è stata anche per me”.

In che senso?
“Ho iniziato a scrivere durante il trasferimento da Roma agli Stati Uniti. Scrivevo perché stavo vivendo una crisi di ambientazione, non sapevo dove mi trovavo. Vivevo in America, ma continuavo a considerare Roma la mia casa. Ed era una sensazione nuova per me, perché, viaggiando di continuo, non mi ero mai sentita a casa in nessun luogo. Il problema delle radici e dell’appartenenza è sempre stato centrale, fin dalla mia infanzia. Per questo è stato così difficile lasciare Roma, perché rappresentava il punto di riferimento che mi era sempre mancato. La citazione di Svevo, all’inizio del libro, mi sembra che esprima esattamente quello che penso: l’angoscia di spostarsi, ma anche la necessità di sacrificare una certa illusione di radicamento”.

Perché ha scelto proprio l’italiano per raccontare questa storia?
“Come dicevo, questa è una storia di distacco. E io ho vissuto tanti distacchi nella mia vita, prima di tutto il distacco dalla lingua inglese e da un certa identità letteraria. Adesso ho deciso di sperimentare un altro tipo di identità come scrittrice. La lingua è l’elemento chiave di tutta questa ricerca e di questo cambiamento”.

Nel 2015 Obama le consegnò la Medaglia Nazionale per l’Arte. Come vive oggi nell’America di Trump?
“La situazione politica degli Stati Uniti è terrificante e vergognosa. Il paese ha fatto una marcia indietro incredibile, come tutto il resto del mondo purtroppo. Nella mia mente continuo a pensare che sia ancora Obama il nostro presidente, perché proprio non riesco ad accettare la presenza di Trump. Mi sono chiusa. Seguo poco la politica, perché è troppo sconvolgente. La mattina leggo le notizie su Repubblica, quindi apprendo quello che accade in America attraverso uno sguardo italiano, attraverso la lingua italiana. Ho bisogno di questa barriera per tutelarmi”

Dunque è pessimista per il futuro?
“L’unico aspetto positivo è che in America la gente reagisce, c’è un’opposizione forte, non solo da parte del popolo, ma anche della stampa: tutti parlano di continuo di quello che sta succedendo”.

A proposito di futuro, sta già lavorando a nuovi progetti? Pensa che scriverà ancora in italiano?
“Sto pensando a diversi progetti. Sicuramente sto scrivendo ancora in italiano, un mio nuovo racconto uscirà prossimamente sulla Lettura. È strano, perché la scelta di cambiare lingua ha lasciato tutti un po’ stupiti in America”.

Davvero?
“È stato un gesto criticato e poco capito”.

Ci spieghi meglio.
“È come se avessero smesso di nutrire un interesse verso i miei lavori. Per me scrivere in italiano è stato un rischio non solo letterario, ma anche concreto, perché ha compromesso molti aspetti della mia vita”.

Ad esempio?
“Prima, con l’anticipo di un libro potevo sistemare la mia famiglia per un paio d’anni, adesso non è più così. Ho preso una decisione artistica, creativa, estetica. Ma almeno è come se rimanessi legata all’Italia, e questo è per me il significato di un luogo”.
 

Fonte: www.illibraio.it


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