“L’unica cosa che non va bene è non fare nulla”: Jonathan Safran Foer e il cambiamento climatico

di Elena Asquini | 16.09.2019

"Non era mia intenzione scrivere dell’alimentazione, il mio obiettivo era il cambiamento climatico, ma ho presto scoperto che sono la stessa cosa", spiega Jonathan Safran Foer parlando del suo nuovo libro, "Possiamo salvare il mondo, prima di cena". In un'intervista con ilLibraio.it lo scrittore espone il ruolo del cibo nella lotta ambientalista e dichiara che "non possiamo salvare il pianeta soltanto mangiando diversamente, ma non possiamo salvarlo senza mangiare diversamente", sostenendo il valore dell'azione individuale per contrastare il cambiamento climatico. Sottolinea anche quanto sia "importante non agire in modo simbolico, ma in modo diretto", aggiungendo che "una delle cose più belle che Greta è riuscita a fare è stato unire le persone, perché non si può fare un lavoro di squadra finché non c’è una squadra"


Scrittore americano tra i più amati anche in Italia, nato a Washington nel 1977, autore di romanzi come Ogni cosa è illuminata, Molto forte incredibilmente vicinoEccomi (tutti editi da Guanda, i primi due nella traduzione di Massimo Bocchiola, il terzo di Irene Abigail Piccinini), Jonathan Safran Foer in queste settimane è ai primi posti delle classifiche di vendita con il suo nuovo saggio sul cambiamento climatico, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccininni).

Il libro è un testo di non-fiction che affronta il problema del riscaldamento globale, ponendo l’accento sul ruolo del cibo e dell’alimentazione; il titolo, va preso abbastanza letteralmente: le nostre scelte alimentari possono contribuire a salvare il pianeta, perché, se i prodotti di origine animale ne stanno causando la distruzione, noi possiamo (dovremmo?) consumarne meno.

Possiamo salvare il mondo prima di cena Jonathan Safran Foer Cambiamento climatico Guanda

Il saggio assume le forme di una riflessione intima che, come un filo rosso, lega l’ambientalismo a comportamenti quotidiani: evitare l’utilizzo di plastica non è poi così diverso dal lasciar passare un’ambulanza, mettendosi sul ciglio della strada; usare la macchina o l’aereo il meno possibile è come scegliere di donare il sangue; consumare meno carne e prodotti di origine animale non è diverso dal risparmio delle risorse istituito durante la seconda guerra mondiale per mantenere i soldati al fronte. Sono tutte azioni che si equivalgono, a livello etico e morale, e Foer le intesse in un’unica grande ragnatela, irrorata da episodi personali ed esempi di solidarietà tratti dalla storia collettiva, soffermandosi spesso a chiedersi, in quanto padre, quale sia la nostra responsabilità nei confronti delle future generazioni, un’argomentazione sempre più diffusa e approfondita anche da Anna Momigliano su Rivista Studio.

Consapevole di quanto delicata e attuale sia la materia, l’autore ritrae le sue stesse difficoltà, tentazioni, errori, dibattiti interiori, senza addolcire la pillola; si dedica meticolosamente a tutte le più frequenti obiezioni alla causa ambientalista, come la convinzione che le scelte ecologiche siano necessariamente le più costose, o l’idea che il pianeta sia semplicemente sovrappopolato e l’unica soluzione sia porre un freno alla crescita della popolazione.

Con l’aiuto di una corposa bibliografia, Jonathan Safran Foer espone, con approccio divulgativo, una serie di fatti, mettendo sotto gli occhi del lettore un’incontrovertibile verità: per quanto ci sia bisogno di scelte strutturali, governative, forti, ciascuno di noi ha il potere di fare qualcosa, perché “sarà anche un mito neoliberista attribuire alle decisioni individuali un potere supremo, ma non attribuire alle decisioni individuali alcun potere è un mito disfattista. Tanto le azioni macro quanto quelle micro hanno un potere, e quando si tratta di contrastare la distruzione del pianeta è immorale liquidare l’una o l’altra e proclamare che siccome non si può ottenere il massimo non si deve tentare di arrivare al minimo”.

Gli allevamenti intensivi, di cui l’autore aveva già scritto in Se niente importa. Perché mangiamo animali (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccininni), sono responsabili di una percentuale enorme delle emissioni di CO2 causate ogni anno dall’uomo, secondo alcuni studi si tratterebbe addirittura del 51% del totale, il tutto in funzione di una nostra alimentazione a base di carne, formaggi e uova. Chiedere di rinunciare, ogni giorno, a tutti i prodotti di origine animale, solo fino all’ora di cena, sarebbe chiedere troppo? Diventare vegani, salvo un pasto al giorno, sarebbe un sacrificio troppo grande?

Nelle primissime pagine del libro, Foer cita un discorso tenuto da Roosevelt nel ’42, rispetto al razionamento necessario per sostenere lo sforzo bellico degli Stati Uniti: “Quando, alla fine di questa guerra, avremo salvato la libertà del nostro sistema di vita, non avremo compiuto nessun ‘sacrificio’”.

ilLibraio.it ha incontrato l’autore americano a Milano.

Foer, lei aveva già scritto dei problemi legati a un’alimentazione basata su prodotti di origine animale, nel saggio Se niente importa. Cosa l’ha spinta a tornare sull’argomento, ora in rapporto al cambiamento climatico e alle conseguenze di una simile alimentazione sul riscaldamento globale?
“In realtà, non era mia intenzione scrivere dell’alimentazione, il mio obiettivo era il cambiamento climatico. Ma ho presto scoperto che sono la stessa cosa: non è un’interpretazione o un’opinione, tutti gli scienziati del clima sostengono che, se non la prima, allora uno delle prime due cose che possiamo fare come individui rispetto al riscaldamento globale è mangiare meno carne e alimenti di derivazione animale”.

Come spiega nel libro, uno dei principali problemi del cambiamento climatico è la narrazione che ne viene fatta, perché non è una storia facile da raccontare, né da digerire. Secondo lei, uno storytelling diverso potrebbe fare la differenza?
“Credo che potrebbe fare molta differenza, ma non so se sia possibile trovare una storia che sia valida per tutti, o se debba per forza essere una narrazione: una storia può prendere la forma di una conversazione tra amici o di un dialogo con se stessi. Sarebbe bello se potessimo individuare dei buoni e dei cattivi iconici, se potessimo puntare il dito contro una tempesta o un incendio nella foresta amazzonica e dire che quello è il problema, mentre questa è la soluzione. Ma il cambiamento climatico non si presta a questa dinamica e non dovremmo aspettare che si manifesti una narrazione più convincente; vale la pena tentare, ma nel frattempo dobbiamo agire”.

Possiamo salvare il mondo, prima di cena ha il merito di semplificare concetti estremamente complessi, fino a renderli comprensibili anche a un bambino, cosa rara quando si tratta del riscaldamento globale. Secondo lei, quanto è grave il problema dell’accesso a un’informazione semplice e divulgativa sul cambiamento climatico?
“Il fatto è che, in realtà, abbiamo un totale accesso all’informazione, da molto tempo ormai. A volte mi viene detto che devo aver fatto veramente moltissime ricerche per questo libro, e la verità è che non è così: è tutto a disposizione, non devi neanche cercare così tanto, il sito delle Nazioni Unite può fornire informazioni e immagini molto chiare su quello che sta succedendo. Ma vorrei dire due cose: la prima è che alcune informazioni sono molto più efficaci, toccanti, interessanti e chiare di altre; per questo motivo, nella sezione del libro in cui elenco dati e fatti, ho fatto del mio meglio per selezionare le nozioni meno comuni, così che i lettori potessero scoprire qualcosa di nuovo o, perlomeno, trovare informazioni note in una prospettiva insolita”.

E la seconda cosa?
“Sebbene gli aspetti più basilari del cambiamento climatico siano abbastanza conosciuti, penso che molte persone non sappiano qual è il vero problema dell’allevamento intensivo: sanno che è un problema, ma non sanno come, perché, non sono consapevoli dei diversi aspetti e delle implicazioni del caso. Questo perché abbiamo focalizzato la nostra attenzione sui combustibili fossili, le macchine, gli aerei, anche i principali ambientalisti, come Al Gore o GreenPeace, non hanno affrontato il problema della carne, quasi per nulla. Anche se ora stanno decisamente cominciando a farlo”.

Lei pone un accento molto importante sull’azione individuale, le scelte della singola persona all’interno della comunità. Cosa ne pensa di tutti quei movimenti collettivi, come i Fridays For Future, Extinction Rebellion, che nell’ultimo anno sono cresciuti enormemente?
“Penso che abbiano molto potere e che abbiano avuto un notevole impatto a livello di consapevolezza. Allo stesso tempo credo che sia importante agire non in modo simbolico, ma in modo diretto”.

Cioè?
“Sono previsti molti scioperi scolastici a settembre, ma la scuola non è il nemico, a chi stiamo togliendo il nostro supporto non andando a scuola? Preferirei che ci fosse un boicottaggio della carne, una scelta di non mangiare più certi alimenti in mensa, oppure un boicottaggio dei voli, delle auto, questo tipo di cose avrebbe più senso, sia sul piano simbolico sia sul piano effettivo. Ma magari non siamo ancora a quel punto. E una delle cose più belle che Greta è riuscita a fare, che Extinction Rebellion è riuscita a fare, è stato unire le persone, metterle insieme, creare un gruppo, perché non si può fare un lavoro di squadra finché non c’è una squadra. In fin dei conti non è tanto una critica la mia, piuttosto un pensare avanti, a quali potrebbero essere i prossimi passi”.

Lei crede che i libri abbiano il potere di cambiare le persone?
“Hanno certamente il potere di cambiare le persone, è molto facile cambiare le persone, è solo difficile cambiarle sul lungo termine: ogni giorno mi riprometto che domani farò qualcosa, salvo poi non farlo. Quando si tratta di riscaldamento globale credo che sia naturale sentirsi toccati dal tema, pensare che dobbiamo fare qualcosa, che dobbiamo smettere di prendere aerei, smettere di mangiare carne; allo stesso tempo è molto difficile fare in modo che quel sentimento duri nel tempo e venga mantenuto anche nel momento in cui perdiamo la presa su ciò che ha suscitato quell’emozione. Non credo che un libro possa essere, in alcun modo, la soluzione al problema, la speranza è che possa contribuire a una conversazione più ampia perché possa diventare onnipresente, anche quando non stiamo guardando un’immagine, leggendo un libro, o parlando con qualcuno”.

Nel libro lei rappresenta le sue personali difficoltà ad agire come vorrebbe: la tentazione di mangiare carne, il desiderio di impegnarsi di più dal punto di vista ecologico, il cadere in tentazione nonostante i buoni propositi e la delusione che questo suscita.
“Sarebbe stato estremamente disonesto da parte mia non condividere queste difficoltà, ma anche controproducente: magari mi avrebbe fatto sentire meglio, ma è molto più efficace ammettere che sono cose difficili, che nessuno è perfetto, che non dobbiamo temere le ipocrisie perché va bene fare fatica e sentirsi in imbarazzo, è normale. L’unica cosa che non va bene è non fare nulla. E, invece di misurare la distanza che ci separa da una sorta di perfezione etica assoluta, dovremmo guardare al progresso che stiamo facendo, ai passi che prendiamo nella giusta direzione”.

Una delle principali obiezioni che vengono sollevate rispetto all’utilità delle scelte individuali è la convinzione che senza un cambiamento dall’alto, da parte dei governi e delle istituzioni, sia tutto inutile.
“Può darsi, ma è altrettanto vero il contrario, cioè che tutto quello che i governi potrebbero fare sarà inutile se noi non cambiamo come individui. È anche improbabile che i governi cambino, se non cambiamo noi, tutto è importante, ma dobbiamo smettere di aspettare che la decisione venga presa da qualcun altro, non abbiamo tempo per questo tipo di comportamenti. È innegabilmente vero che se mangiassimo meno carne e prodotti di derivazione animale questo sarebbe di grande aiuto, ed è altrettanto vero che questo non salverà il pianeta. Eppure sarebbe un primo passo non solo importante, ma anche necessario: non possiamo salvare il pianeta soltanto mangiando diversamente, ma non possiamo salvarlo senza mangiare diversamente”.

Allo stesso tempo, la nostra alimentazione fa parte della nostra cultura, cambiarla significa un cambiamento culturale che non è facile affrontare, per quanto necessario.
“Dobbiamo cambiare la nostra cultura alimentare, non la nostra cultura: per come la vedo io, in questa sua affermazione c’è anche la più forte argomentazione a favore del cambiamento, perché ci fornisce un’occasione di associare al cibo dei valori, farne una scelta per la nostra famiglia, essere genitori che vogliono salvare il pianeta per i loro figli. Quello tra etica e alimentazione potrebbe essere un legame molto bello”.

Sarebbe un passo significativo.
“Un primo passo veramente significativo sarebbe anche lasciar perdere la creazione di nuove leggi e semplicemente applicare quelle che già abbiamo, in termini di regolamentazione ambientale”.

Si riferisce agli Accordi di Parigi?
Anche quelli, ma mi riferisco a un’altra cosa. Negli Stati Uniti il più grande produttore di carne è Smithfield, che in un anno ha commesso 8,600 violazioni del Clean Water Act (una legge che regola l’inquinamento delle acque, ndr). Ora, con due violazioni possiamo accettare che si tratti di un errore, venti violazioni sarebbero un problema, ma 8,600 sono un modello di business. Dobbiamo assicurarci che la distruzione non possa essere un modello di business: c’è una legge che lo vieta, basterebbe farla rispettare”.

Adesso, nel promuovere il libro, ha la sensazione che qualcosa stia cambiando?
“Non è un’impressione, è un fatto, le cose stanno cambiando molto rapidamente. Per esempio, questo libro è primo in classifica nella sezione non-fiction, i miei libri di solito non vanno così bene; centinaia di persone sono venute alle presentazioni che ho fatto, di solito non sono così tante. Certamente ci sono molti lettori che apprezzano i miei libri, ma è l’argomento che attrae, perché in questo momento le persone sono pronte, vogliono parlarne, pensarci, leggerne. In questo viaggio in Italia ho avuto modo di vedere quanta energia e desiderio ci sia per tutto questo”.

Il suo libro oscilla costantemente tra la speranza e disperazione, tra il desiderio di credere che siamo ancora in tempo per fermare la catastrofe e il timore che non sia possibile, che sia già troppo tardi, che si stia facendo troppo poco. Qual è la sensazione più efficace tra le due?
“Penso che siano entrambe necessarie: una persona disillusa, priva di speranza, si rassegna e si arrende. Una persona che coltiva una forte speranza non sente un forte bisogno di agire e similmente si arrende. L’ideale sarebbe sentirsi motivati da una paura che non sia possibile risolvere il problema, e allo stesso tempo essere animati dalla convinzione che, nonostante tutto, saremo capaci di risolverlo. Ma corriamo anche il rischio di sovrastimare il valore di entrambe, paura e speranza, che finirebbero col riferirsi soltanto a se stesse, invece di spingerci ad agire”.

Si tratta di credere che non sia una causa persa.
“Non penso che sia una causa persa, penso che sia quasi una causa persa: non saremo capaci di salvare il pianeta con facilità, lo salveremo a malapena. Siamo giusto all’interno degli estremi. Ma è anche vero che la scienza cambia continuamente, continua a rivelarci un problema sempre più grande di quanto pensassimo. Di nuovo, non credo che sia produttivo investire troppa parte di noi stessi in queste sensazioni”.

A libro finito e pubblicato, cosa prevale?
“Speranza, senza dubbio. È una speranza molto cauta, ma è pur sempre speranza”.

Fonte: www.illibraio.it


Commenti