La poesia d’amore orientale presenta, come caratteri peculiari e distintivi, un distacco dalla soggettività, una leggerezza, un sereno tono impersonale, una ritualità reiterata che l’Occidente cristiano, drammatico, tormentato dall’idea di peccato e teso alla ricerca di tutto ciò che è interiore, ha intravisto solo in rarissimi casi. Perché il poeta orientale è sempre anche un mistico, un saggio, un veggente; e l’Amore di cui parla è la sintesi suprema di Amante e Amato, qualcosa di vicino a Dio, o Dio stesso. Tagore, il grande poeta bengalese della cui sapienza generazioni di lettori occidentali si sono nutriti, non sfugge a questa regola: l’amore di cui ha esperienza, quello che diventa la materia del suo canto, è un sentimento alto e complesso, tormentoso e allo stesso tempo vitale, che nasce sì dentro l’individuo, ma che muove energie che vanno ben oltre e investono la realtà intera e il cosmo. Per il poeta, solo nella coppia amante l’uomo ha la possibilità di realizzare la sua esperienza più piena e totale: perché sacro e profano, anima e desiderio, spirito e carne, linguaggio e natura, Dio e uomo, s’intrecciano indissolubilmente e si rivelano nell’incontro. Nei suoi versi melodici e sapienziali, l’amore si fa dunque desiderio fecondo che desta immagini e visioni, «spirito della fioritura» capace di rigenerare e rigenerarsi continuamente in gioiosi fermenti creativi, passione ed esigenza etica di verità, sete di assoluto. E anche l’esperienza dell’abbandono, della solitudine e della perdita incolmabile della persona amata, che costituisce l’ultima, tragica sfaccettatura del prisma amoroso, viene stemperata in una poesia della memoria che appare sempre più come una vera e propria alternativa di fede.