Il 2 ottobre del 1971, René Marcic, studioso di diritto e caro amico di Ernst Jünger, muore con la moglie Blanka e altri sessantuno passeggeri in un disastro aereo. Un fatto di cronaca, questo, che incarna all'apparenza la «morte banale» del nostro tempo, frutto del mondo tecnico e della sua accelerazione: l'incidente insensato, che non bada ai meriti, alle colpe, e dunque neanche alla singolarità delle vittime e al loro rango spirituale. Se a esserne colpiti sono degli amici, però, si impone la necessità di tentare una lettura diversa, di «affrontare l'evento liberandolo dalla casualità e dagli inganni dell'epoca». La via scelta dall'autore è il ricorso a un mito dai toni sommessi, eppure di grande e inalterata potenza – la storia di Filemone e Bauci narrata da Ovidio nell'VIII libro delle Metamorfosi –, in cui la morte condivisa e simultanea dei due coniugi è un premio concesso loro dagli dèi in cambio della generosa ospitalità ricevuta, e il morire un fatale momento di passaggio e trasformazione. Divenuti rispettivamente quercia e tiglio, nel racconto ovidiano Filemone e Bauci, simbolo dell’amore duraturo, che con i loro fiori e frutti rappresentano non più «la vita di un singolo bensì l'intera stirpe», sono oggetto di venerazione per le generazioni future. Ma è un privilegio di cui, non a caso, verranno privati per sempre, con cieca ferocia, nel Faust di Goethe, da uno «spirito pianificatore» che vede nel loro appagamento per una vita modesta e senza pretese un fastidioso intralcio.
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