Come racconta su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari, che conosce bene la capitale francese, "il fascino di Parigi, della Senna, resiste a tutti i tentativi di decifrarlo". Lo conferma il libro che Elaine Sciolino, a lungo corrispondente per il New York Times, ha dedicato al fiume che attraversa la città: "È un po’ come sognare, come imbarcarsi in una crociera onirica e silenziosa, leggere di Parigi attraverso la storia del suo fiume". E ancora: "La Senna, forse perché è il fiume di Parigi, città di solitari, sognata e vagheggiata per secoli, sembra custodire più segreti di qualsiasi altro fiume"
Chiudo gli occhi e faccio finta che mi serva di nuovo uno di quei biglietti del métro che, l’ultima volta che sono ripartita da Parigi, distrattamente ho infilato in un anfratto del portafogli, il quale già di suo pesa un quintale in quanto ospita la mia collezione permanente al gran completo – scontrini del 2005, lettere d’amore, tessere fedeltà delle profumerie di mezza Europa, abbonamenti scaduti a cinema e biblioteche, mappe, biglietti di biscotti della fortuna. Un tragico ritratto (tragico in quanto largamente composto di materiale non catalogato, scaduto o comunque inutile) della mia persona.
Ma i biglietti del métro non devono scadere mai. Questo di infilarli nel portafogli con la certezza di tornare a usarli “la prossima volta” è un rituale che ho scoperto essere piuttosto diffuso (non pretendo, d’altro canto, di essere l’unica accumulatrice seriale in circolazione), ed è particolarmente rassicurante. Quei biglietti sono diversi da tutti gli altri, piccoli rettangoli di un cartoncino terribilmente rigido, con una riga magnetica scura che corre esattamente al centro (e infatti a suo tempo fui stupita di scoprire che in francese “ticket de métro” indica una particolare acconciatura depilatoria per signore).
Oltretutto, la macchinetta o il bigliettaio, anche se compri un carnet da dieci, non ti danno una tesserina da timbrare dieci volte, ma dieci cartoncini alla spicciolata, slegati uno dall’altro e molto appuntiti agli angoli. Sono diversi dagli altri biglietti: e il fatto che se ne possa cacciare una manciata nel portafogli o nella borsa è come una promessa di ritorno. È come dirsi, ci sarà ancora Parigi, il mese prossimo, o fra sei mesi, o a dir tanto il prossimo anno. E certo Parigi c’è ancora e ci sarà, ma purtroppo, quello che non avevo considerato al tempo del mio ultimo soggiorno, è che ci sarebbe stata pure una pandemia; e che, fra i suoi moltissimi effetti collaterali, ci sarebbe stato anche quello – certo non fra i più gravi, ma comunque complicato da accettare – di rendere sempre più difficili i ritorni a Parigi, e sempre più doloroso pungersi le dita con gli angoli inopinatamente acuminati di quei biglietti troppo rigidi ogni volta che ti tocca frugare nel portafogli.
Ma come ci hanno insegnato tutti gli scrittori e i sognatori del mondo, da che esistono scrittori e sognatori e dunque esiste il mondo, se in un posto non ci puoi andare, beh, puoi star lì a disperarti, lamentarti e risentirti; oppure puoi chiudere gli occhi e far finta di andarci senza muovere un passo. Penso sempre a Salgari che nel suo Borneo ci arrivava a bordo di uno sferragliante tram torinese; penso alle fantasticherie oppiacee e irresistibili di Baudelaire nello Spleen di Parigi, tanto vivide e dense da contagiare chi le legge con le immagini di vite mai vissute, oltre le finestre chiuse di case invisibili. Penso a dove vorrei essere, e mi ritrovo a Parigi in un battibaleno.
Infilo un biglietto nella macchinetta, métro Jourdain, linea 11. Era lì una delle mie tante fermate, quella vicina alla prima casa in cui ho abitato. Gli spigoli mi pungono le dita, ma che importa, sono dentro. Mi siedo su uno strapuntino, il treno sferraglia via. Non ho voglia però di stare al chiuso, ho voglia di camminare, di vedere la città, di perdermi un po’, una voglia che mi ha attraversata per tutto il tempo che ho vissuto a Parigi, e continua ad attraversarmi ogni volta che ci torno – il che fra l’altro chiarisce molto bene la ragione per cui a me i biglietti del métro avanzano sempre: perché a Parigi mi sembra sprecato il tempo in cui non cammino – così decido di scendere prima.
Pioviggina, ma che importa? Anche perché non devo andare da nessuna parte, sono uscita di casa così, senza appuntamenti, senza impegni, ho un pomeriggio tutto per me. Magari alle prime luci della sera mi infilerò dentro un cinema a vedere un film già visto, o un film nuovo, o solo a riposarmi un po’ sul velluto consumato. Oppure mi siederò a un tavolino nella prima terrasse che mi piacerà, mi ordinerò un Kir e me ne starò lì a berlo mentre guardo le persone, ascolto i discorsi degli altri, vedo a che ritmo fumano le ragazze che ridacchiano per qualche storia da cui sono esclusa.
A Parigi ho imparato la bellezza della solitudine, prima non la conoscevo. Sembra un cliché e lo so benissimo; eppure se lo provaste, se in incognito mi seguiste in questa passeggiata, scoprireste che è proprio così che Parigi accoglie i solitari, abbracciandoli con nonchalance, senza farli sentire né assediati né respinti, né abbandonati. E non c’è da stupirsi, perché Parigi è la città della flânerie e dei flâneurs: per quanto, come tutte le grandi metropoli, cambi e si trasformi e divori contraddizioni e ingiustizie e brutture masticandole e sputandole via, sono ancora ben visibili le tracce del tempo in cui nacque la figura del camminatore sfaccendato, il tempo in cui il barone Haussmann spianò la Parigi medievale in una città di viali larghi e grigi perfetti sì per far scorrere il traffico, ma anche per camminare ore e ore; il tempo delle brasserie con i tavoli minuscoli a cui ti aspetti di incontrare Bel-Ami, e poi ancora, i resti del secolo ventesimo che, chissà ancora per quanto, resistono alla corrente del nuovo che li erode: la densità incredibile di piccoli cinema e librerie in cui spulciare per ore e ore metri cubi di volumi costretti in spazi esigui, le seggioline dipinte di verde nei parchi, per sedersi a leggere all’ombra, con i piedi che si impolverano di quella sabbia bianchissima e indelebile dei parchi di Parigi.
Ma prima di sedermi da qualche parte ad ammazzare il tempo con una voluttà che non ho conosciuto, né ritrovato, in nessun’altra città, nemmeno a Roma – prima voglio camminare. E camminare, a Parigi, per me significa una cosa in particolare: seguire il corso della Senna, l’unico fiume al mondo – ha detto la giornalista britannica Kirsty Lang – che scorre fra due librerie. L’aforisma di Lang per la verità non lo conoscevo, l’ho scoperto proprio poco fa leggendo un libro bellissimo in uscita per Guanda (nella traduzione di Francesco Zago): La Senna, di Elaine Sciolino, che è nata a Buffalo ma è stata a lungo corrispondente da Parigi per il New York Times.
È stato leggendo il suo libro che mi sono ritrovata nell’impellenza di concedermi questa passeggiata immaginaria, di figurarmi di spuntar fuori dal métro alla fermata Hôtel de Ville per evitare la confusione dello snodo di Chatelet, e da lì cominciare a camminare, camminare, camminare lungo la banchina. Guardare il cielo, il fiume i palazzi, contare le sfumature fredde dei grigi che riverberano le foglie dei platani, o i platani nudi, a seconda della stagione; in ogni stagione Parigi sa portare benissimo il suo grigio, il suo umido, il suo cielo che pare quasi un cielo da estuario, la sera, quando si avvicina il tramonto e le nuvole si aprono, gonfie e tempestose e cangianti come le ho ritrovate in Normandia, a Honfleur e a Le Havre e a Rouen, dove il fiume davvero arriva al mare e l’orizzonte si apre e si confonde.
Nel libro di Sciolino, che racconta i suoi primi tempi di ragazza straniera a Parigi, i tempi in cui non conosceva nessuno e riceveva quell’abbraccio che la città, e il fiume, sanno offrire a un particolare tipo di persona solitaria, ho ritrovato lo stesso identico piacere che mi percorreva quando anch’io, appena arrivata a Parigi, ancora non conoscevo nessuno; e che mi ripercorre ogni volta che ci torno, anche solo con il pensiero, e mi concedo di bighellonare fra le casse dipinte di verde vagone (il mio colore preferito) che strabordano dei libri dei bouquinistes, e qualche volta della paccottiglia che si vende ai turisti: mi piace pure quella, nella sospensione che respiro sulla banchina tutta grigia, perché non è mai pura, vera paccottiglia, ma ci si ritrova sempre dentro, a ben guardare, qualche pezzo di sé, qualche segno dell’infanzia come un reperto archeologico che affiora, se non altro perché l’immagine di Parigi, anche quella più cliché, quella quasi kitsch, ci assedia, ci abita sempre, come un desiderio o qualche volta come una forma di irritazione. E così le stampacce fatte male di qualche affiche di Toulouse-Lautrec, il gatto nero del Cabaret du Chat noir, i baschi che si infeltriscono, anche se ci hanno stufati da un pezzo, hanno una grazia tutta loro; soprattutto perché a frugare lì in mezzo capita di imbattersi in qualche fotografia osée di Gainsbourg e Birkin che giocano a fare i malandrini, in una pagina tagliata da un vecchio albo di Babar che può diventare un quadro, in un portachiavi bruttissimo che può ricordarci questo pomeriggio e la sua solitudine, magari. E poi, ci sarà anche la paccottiglia, ma ci sono, soprattutto, i libri. Libri sul cui prezzo trattare con i librai che ti sfumazzano accanto, che portano cappelli e mezzi guanti per difendersi dal freddo, e la sera richiudono con i lucchetti quelle loro cassettine di un verde sublime che custodiscono mille e mille chiavi per aprire le porte più nascoste – porte che affacciano su sogni distopici di fantascienza di primo Novecento, cataloghi di mostre di mezzo secolo fa, poesie erotiche e pastorali, fotografie di mode, romanzi introvabili, biografie, raccolte di incisioni. Qualsiasi cosa, in un ordine allegramente anarchico, in cui è il caso a guidare le mani che frugano fra le copertine, gli occhi che inciampano nei titoli più assurdi.
Sciolino, nel suo libro, racconta mille e mille storie incredibili, fra cui quella dei bouquinistes, il cui mestiere di librai ambulanti ebbe inizio nel XVI secolo, con l’esigenza di smerciare clandestinamente i libri proibiti, aggirando la censura; e fra alterne vicende attraversa i secoli, e arriva fino a oggi, che le rive della Senna sono patrimonio dell’umanità e però, ahinoi, questo smercio ormai da un bel pezzo non più clandestino di libri un tempo galeotti trova sempre più di rado dei clienti.
È un po’ come sognare, come imbarcarsi in una crociera onirica e silenziosa, leggere di Parigi attraverso la storia del suo fiume, e seguirla, dall’epoca dalla dea gallica Sequana, da cui ha preso il nome – perché la Senna è un fiume femminile, a differenza del Tevere o dell’Arno o del Po – a quella della strage degli Ugonotti che tinse le sue acque di sangue; dalla vicenda terribile della figlia di Victor Hugo, Léopoldine, che nel 1843, a diciannove anni, fresca sposina, morì durante una gita normanna in barca con il marito, inghiottita dal fiume – e nel fiume poi Hugo farà morire suicida l’ispettore Javert dei Miserabili, in una scena di disperazione plumbea – al giorno di aprile del 2019 in cui le acque della Senna pompate dai Sapeurs-Pompiers salvarono dalle fiamme la cattedrale di Notre-Dame.
La Senna, forse perché è il fiume di Parigi, città di solitari, sognata e vagheggiata per secoli, sembra custodire più segreti di qualsiasi altro fiume. Segreti di amori e di morti che rimangono misteriose: come quella della cosiddetta Inconnue de la Seine, una ragazza senza nome che trovò la morte per acqua – anche se qualcuno sostiene che la bellezza destinata a renderla famosa sia la prova che non possa essere annegata, semmai morta di tisi e poi finita a mollo per qualche altra ragione misteriosa – alla fine dell’Ottocento. Esposta per giorni all’obitorio, proprio alle spalle di Notre-Dame, la salma non fu reclamata da nessuno: ma il viso della ragazza era tanto bello, che il patologo della camera mortuaria mandò a chiamare un modellatore perché ne facesse un calco. La sua maschera funebre, che sembra sul punto di sbocciare in un sorriso, perturbante e dolcissima, ossessionò parecchi artisti negli anni: Man Ray le offrì addirittura un paio d’occhi aperti in un fotomontaggio realizzato per illustrare il romanzo Aurélien di Louis Aragon, il cui protagonista è assillato dal volto della sconosciuta. Nabokov le dedicò una poesia, ne scrissero Rilke e Blanchot. Per Camus, era una Monna Lisa noyée, annegata, con il suo sorriso che rimane un enigma. Sta di fatto che la sua faccia è diventata la faccia del manichino Anne, quello che viene utilizzato in tutti i corsi di primo soccorso per praticare la respirazione bocca a bocca: sono probabilmente quelle della Sconosciuta della Senna le labbra più baciate nella storia.
Come questa vicenda di cui non sapremo mai, probabilmente, i dettagli – cos’avrà spinto la ragazza fra le acque del fiume? – il fascino di Parigi, della Senna, resiste a tutti i tentativi di decifrarlo. Ma che importa, alla fin fine, spiegarselo, quando si può camminare, a occhi chiusi o anche a occhi aperti, e sperperare un po’ di tempo sui quais, sotto i platani? Non sarà per caso che il libro di Sciolino cita una quantità sorprendente di storie di aspiranti suicidi che, arrivati al punto di gettarsi nella Senna, ci ripensano vedendo la bellezza di Parigi, quella bellezza che avvolge le solitudini, le tristezze, le euforie e anche i dolori.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).
Fonte: www.illibraio.it