“Ho capito che Gerda è un personaggio così forte perché passa come una stella cometa nelle vite degli amici e degli amanti; e sono gli sguardi degli altri che ne restituiscono tutto la luminescenza, tutta l’energia inafferrabile. Questa donna sapeva tirare fuori il meglio dagli altri, come accade quando ti innamori e provi energie nuove, ti senti potenziato...". In un'approfondita intervista a ilLibraio.it, Helena Janeczek entra nei dettagli del suo nuovo libro, "La ragazza con la Leica", parla del suo approccio alla scrittura e dei libri di oggi: "Non voglio sostenere il primato della letteratura, ma mi sembra che oggi tenda spesso a perdere fiducia nelle sue potenzialità: troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti. Perché dovrei dedicare dei giorni a leggere un libro che non mi dà nulla in più di un film che posso gustarmi in due ore, per giunta in buona compagnia? Temo si sia creato una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza 'semplificata'..."
La ragazza con la Leica, il nuovo romanzo di Helena Janeczek, in libreria per Guanda, ripercorre e ricostruisce la figura della prima fotografa di guerra caduta sul campo, la giovanissima Gerda Taro, attraverso gli occhi di chi l’ha più amata, a distanza di quasi trent’anni. Così, questo sguardo retrospettivo a partire dagli anni ’60 corre indietro fino alla Germania pre-hitleriana e all’Europa antifascista, in un romanzo accurato che si fa testimonianza del nostro passato e storia di una vita. ilLibraio.it ha intervistato la scrittrice, protagonista al Festival Letteratura di Mantova.
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Gerda Taro “si trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri” (p. 186). Eppure se tutti conoscono Robert Capa, pochi ricordano il nome di Gerda Taro, scomparsa a soli ventisette anni sul campo di battaglia. Cosa ha significato per lei riportare in vita la sua storia in un romanzo?
“Dopo averla scoperta, a Milano, nella prima mostra monografica dedicata a lei, mi sono procurata un’ottima biografia – oggi purtroppo fuori catalogo – e ho preso contatti l’autrice, Irme Schaber, che si è dedicata anche alla ricostruzione del corpus fotografico. Infatti le foto di Capa e Gerda erano mescolate; è stato un lavoro lunghissimo riuscire a ripristinare le corrette attribuzioni, uno sforzo che,con il ritrovamento della cosiddetta ‘Valigia Messicana’ contenente buona parte dei negativi scattati da Gerda Taro con la Leica, ha compiuto un grande salto di qualità. In più ci sono tutte le ricerche che ho svolto per i personaggi meno noti: quando si parla di una figura non pubblica, è ancora più difficile avere informazioni. Ma n’è valsa la pena. Avevo chiaro sin dall’inizio che non volevo scrivere il classico romanzo biografico su Gerda, raccontare solo la storia della ragazza di Robert Capa e dell’eroica fotoreporter morta in Spagna nel 1937. Volevo raccontarla attraverso gli occhi degli altri”.
Infatti ha raccontato la vita di Gerda filtrata dal punto di vista di chi l’ha amata: Willy Chardack, innamorato di lei e testimone scettico della sua storia con Capa; l’amica di Lipsia, Ruth Cerf; Georg Kuritzkes, ex fidanzato di Gerda, impegnato politicamente nelle Brigate internazionali. Quali opportunità narrative le ha dato raccontare Gerda attraverso così tanti sguardi?
“Ho capito che Gerda è un personaggio così forte perché passa come una stella cometa nelle vite degli amici e degli amanti; e sono gli sguardi degli altri che ne restituiscono tutto la luminescenza, tutta l’energia inafferrabile. Questa donna sapeva tirare fuori il meglio dagli altri, come accade quando ti innamori e provi energie nuove, ti senti potenziato.
Gerda, pur con la sua seduttività, non è una donna fatale, è una strana creatura: figlia dei suoi anni, con molte contraddizioni, si comporta come non ci aspetteremmo dai modelli e dai luoghi comuni in cui incaselliamo le figure femminili.
In più, raccontare di lei attraverso i ricordi dei suoi amici e amori mi permetteva di approfondire che cosa significava vivere in quegli anni per dei ragazzi europei. Anche per questo non mi interessava la prospettiva che parte dal ‘mito americano’ di Capa per arrivare a Gerda”.
“Le storie, Schatzi, vanno inventate come si deve, altrimenti fanno acqua”, si legge a pagina 122. Riprendiamo questo pensiero per chiederle: come si lavora a un romanzo così complesso?
“Anche se sono approssimativa in tutti i campi della mia vita, quando si tratta di scrivere divento abbastanza ossessiva. Ho lavorato tantissimo sulle fonti, specialmente su quelle di cui parlavo prima, ma anche internet è stato di grande aiuto. Sorprendentemente, ho scoperto proprio da un sito che registra gli sbarchi degli immigrati a Ellis Island una coincidenza romanzesca: Willy, l’eterno spasimante di Gerda, è davvero sbarcato in America assieme agli amici fotografi Fred e Lilo Stein, come racconto!
Anche se il lettore non se ne accorge (e a mio parere non deve accorgersene), la ricerca attraverso le fonti mette al riparo lo scrittore dal fare un’opera di cartapesta, soprattutto quando si tratta di un romanzo storico ambientato perfino in due periodi diversi, negli anni ’60 da una parte e negli anni ’30 dall’altra. Ho voluto adottare una prospettiva soggettiva che schiva gli excursus descrittivi più tradizionali, perché tutto è interiorizzato dai personaggi, ma i tocchi rapidi per abbozzare l’ambiente devono essere sicuri. Ad esempio, c’è una scena in cui la cucina nuova della mamma di Gerda a Lipsia viene descritta come tutta nuova e bianca: sono andata a controllare se nel ’32/33 si usassero già quella cucine moderne. Una selezione dei materiali con cui ho lavorato si trova nel sito che sto curando, ‘Nel mondo di Gerda Taro’. È una sorta di ‘ipertest’ fatto d’immagini, video e musica, da affiancare alla lettura, specie dove il racconto prende spunto da una fotografia di Gerda, ma navigabile anche per dei semplici curiosi”.
Nella celebre Lettre à M. Chauvet, Manzoni scriveva: “Quando si racconta una storia a un bambino, quello non manca mai di fare questa domanda: è vero? E non si tratta di un gusto particolare dell’infanzia; il bisogno della verità è l’unica cosa che ci possa far dare importanza a tutto ciò che veniamo a sapere”. A suo parere esiste un giusto equilibrio tra i dati storico-biografici e la finzione romanzesca?
“Esiste una verità letteraria che non coincide con la realtà fattuale ed è una questione decisamente complicata. Un approccio come il mio, che narra di personaggi storicamente esistiti, ti costringe a portare rispetto, come se loro fossero persone in carne ed ossa che vorresti conoscere. Come nella vita reale, quando vuoi conoscere qualcuno metti in gioco anche del tuo. Ti protendi verso l’altro per attingere alla sua unicità e, intanto, impieghi gli strumenti che hai a disposizione: le tue esperienze passate, le tue letture, la tua immaginazione… Alla fine impari qualcosa che non è già tuo fin dall’inizio, ma al tempo stesso ti fa scoprire a poco a poco quanto di te stessa hai messo dentro nel tuo libro. In più il lavoro di ricerca, specie il tuffo negli archivi, per me è appassionante come una sorta di caccia al tesoro. Due personaggi molto di contorno me li sono inventati di sana pianta, ma tante vicende che ho scoperto e ho avuto modo di inserire, mi hanno confermato che la realtà ne sa più della fantasia”.
“In fin dei conti, con Gerda, non aveva messo al mondo che se stesso: Robert Capa” (p. 126). Quali aspetti del legame tra i due fotografi ha voluto narrare?
“Per ritornare al grande tema della verità letteraria: come potevo concepire una narrazione ‘fedele’ a Gerda e Capa, due ragazzi che si sono letteralmente inventati, come se fossero personaggi di un romanzo o di un film hollywoodiano? Con un libro, mi sono detta, che si prendesse la licenza di mescolare dati reali e finzione, come facevano loro due, vale a dire un romanzo. Gerda Taro è infatti lo pseudonimo di Gerta Pohorylle, mentre Robert Capa deve il suo nome d’arte proprio a Gerda: i due erano alla ricerca di un nome che suonasse meglio dell’anagrafico Endre Friedmann, e di una storia che conferisse a quello pseudonimo un’identità affascinante…”
“Quanta gente ha visto prima di morire? Un numero molto maggiore di quanti ne ha immortalati” (p. 185): un fotoreporter è uno specchio del mondo che racconta o un interprete?
“Un fotoreporter intende farsi specchio e testimone della realtà che incontra, Capa e Taro volevano per giunta spendersi per la causa della Repubblica spagnola. Usavano la fotocamera senza nessuna intenzionalità soggettiva, ma alla fine si mettono dentro ai loro scatti, perché ogni occhio è diverso dall’altro, perché nel clic c’è sempre l’incontro tra il soggetto e il mondo. Fotografare in zone di conflitto, tra l’altro, è un lavoro con un forte impatto psichico. Ormai ci sono studi e testimonianze che ci dicono chiaramente quanto il mestiere del fotografo di guerra sia foriero di traumi, oltreché pericoloso, ieri come oggi. Pochi giorni fa, in Sudan, è morto Christopher Allen, un free-lance americano di appena 25 anni. Credo che molto di ciò che ci è stato raccontato su Capa e che ha contribuito a creare il suo mito (l’uomo che beve, che gioca e non si lega da nessuna parte e a nessuna donna), rimandi a una sintomatologia precisa che oggi ricondurremmo in buona parte a quelle esperienze, nonché al trauma della morte di Gerda). Del resto, lo diceva già Capa stesso che fotografare scene di guerra è una professione che non ti lascia indenne: tu vai a testimoniare gli orrori, non intervieni se non con la tua fotocamera, e poi prendi un aereo e torni alla tua realtà. Come è possibile rientrare nella propria vita, senza sentirsi lacerati?!”.
La Grande Storia è stata più volte al centro della sua scrittura, ibridandosi anche con l’autobiografia, come in Lezioni di tenebra. Quali compiti pensa che spettino alla rievocazione storica, romanzata o meno, oggi?
“Molti scrittori oggi si occupano di custodire e diffondere particolari momenti storici. Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, facevo spesso viaggi verso Monaco per motivi familiari ed era il periodo in cui l’Europa è stata raggiunta dalla crisi economica. Seguivo la crisi greca dalla Germania e provavo angoscia pensando alla storia di questo Paese; intanto mi occupavo del formarsi di Gerda in una Germania degli anni della grande disoccupazione, che hanno prodotto l’ascesa del nazismo. Sentivo che c’era qualcosa di molto attuale, purtroppo, in quel passato che stavo raccontando. Più andavo avanti nei sei anni di gestazione di questo libro (cinque da quando ho cominciato a scriverlo) e più i punti di contatto con l’oggi si sono rafforzati. Le ostilità e difficoltà che Gerda e i suoi amici incontrano in Francia, dov’erano profughi, certe immagini delle milizie spagnole quasi identiche a quelle delle combattenti curde in Siria, dove, in maniera ancora più feroce, i civili sono le principali vittime della guerra.
D’altro canto, è difficile parlare del nostro presente; ho sentito un caro amico e bravissimo scrittore, Davide Orecchio, dare una risposta molto bella sulla scelta di narrare il passato: oggi è come se noi fossimo in una specie di stasi; tornare indietro è un modo per prendere una rincorsa lunga per cercare di superare l’impasse di un presente così privo di orizzonti. Di recente ho anche letto le bozze del romanzo di Francesca Melandri (con cui dialogherò a Pordenonelegge), Sangue giusto, che è un grande lavoro sul colonialismo italiano. Mi fa piacere che tante persone si prendano cura di un pezzo di storia che ha ancora da porci tante domande”.
Dunque, raccontare la storia attraverso un obbiettivo fotografico e attraverso una penna: esistono punti in comune? E quali sono le differenze principali?
“La fotografia fissa un attimo ed è come se scavalcasse il tempo. La letteratura, anche se arranca oggi nel competere con tutte le narrazioni per immagini (anche film e serie tv), nella sua astrattezza – piccoli segni neri su un supporto bianco – ha la capacità di giungere dove il visibile non arriva. Con il nostro mezzo, così povero, noi scrittori possiamo prenderci delle libertà enormi. Un libro può tratteggiare l’evoluzione dei personaggi alla pari delle serie tv più acclamate. Ad esempio, ho finito in questi giorni Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi, 2017): con una narrazione semplice come una favola, riesce a creare uno dei libri più forti e letterariamente belli sull’emigrazione di questi anni; con due protagonisti comuni, Saeed e Nadia, tratteggiati in modo perfetto; e con il ricorso al fantastico che rende ancor più spaventosa e reale l’attualità. Uno scrittore può fare in centocinquanta pagine ciò che, tradotto in film, richiederebbe dei mezzi tecnici e delle risorse produttive spaventose.
Inoltre c’è un’altra differenza sostanziale: la letteratura richiede l’immaginazione, per qualsiasi tipo di racconto (realista o fantastico che sia), mentre il mondo sovraffollato dalle immagini tende a impoverire la capacità di immaginare, che porta con sé non solo il vedere, ma anche il sentire, perché richiede la collaborazione del lettore nell’elaborare le parole sulla carta.
Non voglio sostenere il primato della letteratura, ma mi sembra che oggi tenda spesso a perdere fiducia nelle sue potenzialità: troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti. Perché dovrei dedicare dei giorni a leggere un libro che non mi dà nulla in più di un film che posso gustarmi in due ore, per giunta in buona compagnia? Temo si sia creato una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza ‘semplificata’. Così spesso rafforziamo l’orizzonte d’attesa che dai libri si aspetta talmente poco che, alla fine, ne può volentieri fare a meno. Ecco, penso sinceramente che non facciamo, alla lunga, un buon servizio alla sopravvivenza della letteratura se non cerchiamo di coltivarla in tutte le sue forme – lineari o complesse – che la rendono un piacere o un arricchimento insostituibili”.
La breve eppure intensa vita di Gerda, l’ottimismo controbilanciato da un grande pragmatismo, la sua bravura ad adattarsi anche in contesti prettamente maschili, la sua capacità di dissimulare incertezze e delusioni, l’istinto di cronaca e, quasi certamente, la sua attrazione del pericolo… Questi e tanti altri aspetti di lei, cosa potrebbero comunicare alle ragazze di oggi?
“Staremmo meglio, forse, se fossimo tutte un po’ dotate della stoffa di Gerda, e non solo le ventenni, noi donne in generale! Anche con i suoi lati d’ombra, lei esprime un’infinita voglia di vivere, la capacità di risollevarsi sempre. Gerda non si è mai sentita vittima della sorte. Gerda sa quel che vuole, con grande determinazione, al contrario di altri personaggi che girano intorno a lei, che, pur condividendo gli stessi ideali, risultano talvolta persino schiacciati dai sentimenti che nutrono nei suoi confronti. Ma tutti i personaggi di questa storia, persino i più timidi e gregari, hanno voglia di starsi vicini, di non lasciarsi rubare le cose in cui credono, di non arrendersi alle circostanze. E sanno ancora divertirsi, amare, vivere giorno dopo giorno. Rispecchiarsi in questi ragazzi spero possa trasmettere un po’ di gioia, energia e fiducia: per me, almeno, è stato così”.
Fonte: www.illibraio.it