Intervista a Bruno Arpaia autore di Il passato davanti a noi ISBN:8882469123
In un paese alla periferia di Napoli, negli anni Settanta, un gruppo di ragazzi vive l’ultima grande stagione degli ideali e delle lotte politiche, fa i conti con una realtà sociale difficile, continuamente minacciata dalla criminalità organizzata, e nel frattempo affronta il suo particolare percorso di formazione, che passa attraverso gli amori, le tensioni familiari, le vacanze vissute all’avventura e termina con il fallimento degli stessi ideali da cui aveva preso le mosse, con la brusca chiusura di un orizzonte che si era aperto e non pareva dover tramontare mai più. Le scelte dei protagonisti sono state, a partire da quel punto, le più diverse: e adesso c’è chi vive una vita del tutto normale, con moglie e figli, e chi invece si trova a fare i conti con il proprio passato di militanza armata e terrorismo. Il romanzo, a partire da oggi e attraverso il comporsi armonico delle voci di quei giovani che la vita ha forgiato, ripercorre le scelte e gli ideali di quel tempo, fino a riconoscere anche in quel fallimento lo svolgersi di un importante percorso di formazione e a consegnarci, alla fine di una storia intensa e piena di vita, un pezzo importante della storia recente d’Italia. Questi i temi e le vicende raccontate da Bruno Arpaia nel suo nuovo romanzo, Il passato davanti a noi. Lo abbiamo intervistato.
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D. Perché ha voluto raccontare proprio gli anni Settanta?
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R. Per molti di noi, quegli anni sono stati un’esperienza forte e intensa. Avevo già in mente di provare a raccontarli, ma la spinta decisiva mi è venuta dai ragazzi del Master in comunicazione della scienza di Trieste ai quali, in quel periodo, insegnavo Tecniche della narrazione. Trentenni molto in gamba, colti e informati. È bastato un accenno alla mia intenzione di provare a scrivere di quegli anni per scatenare un inferno di domande, una partecipazione intensissima. Niente più lezione: le quattro ore sono passate a chiacchierare, a discutere, a farsi raccontare com’era quel decennio. Nemmeno loro, che avevano solo una decina d’anni meno di me, ne sapevano nulla. Oggi si ricordano solo il piombo, gli attentati, le Brigate rosse, le stragi, e anche in maniera approssimativa e spesso falsa. Quel periodo è un «buco nero» in cui nessuno vuole mettere seriamente le mani per paura di essere assorbito e non uscirne più vivo. Come ha scritto Stefano Tassinari, si giudicano quegli anni a partire solo dagli effetti e non dalle cause. Dunque, raccontarli mi è sembrato ancor di più una specie di dovere, un dovere della mia generazione.
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D. Per farlo, ha scelto una prospettiva obliqua…
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R. Beh, ho visto quegli anni dalla periferia della periferia, li ho visti da un paesino del Sud, della provincia di Napoli, un paesino con lo scemo del paese, con il bar dove si gioca a bigliardo, con il sindaco che è un poco di buono, ma anche con i fascisti che menavano (anche se dopo due o tre giorni eri costretto a giocarci a bigliardo insieme) e con una camorra che cominciava a farsi sempre più sanguinosa, sempre più pervasiva. Un paesino, però, dove comunque arrivavano le stesse musiche, le stesse canne che a Milano o a Roma, dove gli eventi storici, le elezioni, le battaglie sul divorzio, gli scioperi generali, i morti nelle piazze, magari un po’ smorzati, si facevano ugualmente sentire. Il libro racconta la storia di un gruppo di ragazzi, militanti di quella che allora si chiamava la sinistra rivoluzionaria. È una narrazione allo stesso tempo corale (credo di aver messo in campo più di centocinquanta personaggi, includendo le comparse), ma centrata su un protagonista, Alberto Malinconico, il cui amico più stretto si chiama Angelo Malecore. Dal 1973, anno del golpe in Cile che li spinge a militare attivamente, questi ragazzi passano attraverso la stagione delle lotte operaie e studentesche, della crisi petrolifera e dell’austerità, attraverso la battaglia sul divorzio, la grande crescita della sinistra nel 1975, la delusione e della sconfitta del 1976, ma anche attraverso i concerti dei grandi gruppi stranieri e italiani, attraverso le prime ragazze, attraverso le stupidaggini che si fanno a quell’età, gli scherzi e le goliardate. Ci si divertiva anche, allora, e molto (almeno fino a un certo periodo), ma questo non viene mai ricordato.
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D. Poi, però, arriva il cosiddetto «riflusso»…
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R. Più o meno alla fine del 1976, le strade dei miei personaggi cominciano a dividersi. Angelo Malecore va a fare il militare, a Milano entra in contatto con dei gruppi che pian piano si armano e fanno rapine e gambizzazioni, Alberto Malinconico invece si inurba, va a Napoli all’università, incontra altri amici, una ragazza che lo farà impazzire con le sue esitazioni e tentennnamenti. Insieme a quel piccolo gruppo compatto di amici e amiche, Alberto partecipa al movimento del ‘77, un movimento dalle caratteristiche nuove, attento al linguaggio, alla comunicazione, all’ironia. Partecipa alle giornate di marzo quando la polizia uccide un ragazzo a Bologna, a quelle di maggio, quando gli agenti in borghese di Cossiga ammazzano Giorgiana Masi a Roma, ai primi scontri verbali con i gruppi dell’Autonomia, parenti prossimi della lotta armata. Alberto è dalla parte dei tanti che, in quel movimento, si trovano stritolati fra la repressione dello stato e i «compagni che sparano». Il ‘77 comunque è una breve fiammata; con il sequestro Moro viene messo il coperchio sulla bara di quegli anni, di quel periodo in cui, invece che insistere tanto sull’«Io», come oggi, si poteva ancora dire «Noi», in cui tutto sembrava riguardarci, c’era la sensazione di un’appartenenza, non si era soli nella massa come adesso.
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D. Nel libro, c’è anche un’altra linea narrativa: è quella di Alberto che, a distanza di anni, ritorna varie volte al paese da dove è partito tanto tempo prima…
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R. Sì. Incontra i vecchi amici e compagni, si guarda intorno, scava, si pone domande e ne pone agli altri, cercando di capire cos’è davvero successo, cosa funzionava e cosa no, gli errori commessi e le cause di quella sconfitta. Cerca di capire perché nessuno di loro ha capito nulla quando, mentre i militanti tornavano a casa e la politica si ritirava dalle strade, la camorra le occupava, stringeva alleanze con i politici e faceva speculazioni edilizie, e nel suo paese uccideva due consiglieri comunali. Perché non hanno capito nulla? Potevano fare qualcosa per salvarli? Ma le incursioni nel passato di Alberto non sono solo occasione di nostalgie e ricordi, servono anche a capire quanto sia bugiarda la memoria, quanto travisi le cose, quanto inventi, quanto sia un racconto, quasi una finzione. Servono a capire l’oggi, a vivere nel presente, riconoscendo le stupidaggini fatte e pensate all’epoca, ma rivendicando anche alcune cose, come quel senso di collettività, di appartenenza a una comunità che oggi sembra definitivamente perduto. E come quelle passioni, politiche ed esistenziali, di cui forse abbiamo ancora bisogno.
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Fonte: www.illibraio.it