Arundhati Roy torna a ottobre con l’atteso memoir “Il mio rifugio e la mia tempesta”


Il memoir Il mio rifugio e la mia tempesta (in uscita a ottobre per Guanda, suo editore italiano), segna l’atteso ritorno di Arundhati Roy, l’autrice del bestseller Dio delle piccole cose, con cui vinse il Booker Prize nel 1997.

La scrittrice ha pubblicato anche numerosi saggi di non fiction e il romanzo Il ministero della suprema felicità, con cui è stata selezionata al Man Booker Prize nel 2017, tradotto in più di cinquanta lingue. Nel 2023, inoltre, ha vinto il prestigioso European Essay Prize for lifetime achievement, e nel 2024 il Pen Pinter Prize per saper raccontare “urgenti storie di ingiustizia con saggezza e bellezza”.

Roy

“Ho scritto questo libro per tutta la vita”, spiega Arundhati Roy. E aggiunge: “Forse una madre come la mia meritava una scrittrice come me per figlia. Ma ugualmente una scrittrice come me meritava una madre come lei“.

Con il cuore a pezzi all’indomani della morte della madre nel 2022, Roy inizia a scrivere per capire i sentimenti profondi e contraddittori per quella donna carismatica dalla quale si è allontanata all’età di diciotto anni “non perché non la amavo, ma per poter continuare ad amarla”.

Un viaggio nell’infanzia dell’autrice, negli anni che la portano alla scrittura e al successo che coincide con la vittoria del partito nazionalista indù, con le violenze e con la fine del suo matrimonio, con l’urgenza di impegnarsi per le cause politiche ed ecologiche. Un memoir che – si legge nella nota di Guanda – è un viaggio nella storia di una nazione e di una scrittrice attraverso la complessa e straordinaria relazione con sua madre, che per tutta la vita sarà per lei rifugio e tempesta: “Non è facile per me pensare che questa storia, in questo momento, diventerà pubblica, ma nello stesso tempo mi rassicura il fatto che sarà pubblicata dai migliori editori del mondo”.

 

Fonte: www.illibraio.it


Il “folle senza Dio” Javier Cercas a tu per tu con “folle di Dio”, Papa Francesco


Ecco un folle senza Dio che insegue il folle di Dio fino alla fine del mondo“.

Da questo attacco folgorante prende avvio un libro unico, che nessuno finora aveva avuto l’opportunità di scrivere. Il “folle senza Dio” è uno scrittore ateo e anticlericale, che si definisce laicista militante, mosso dal desiderio di parlare a tu per tu con Papa Francesco (venuto a mancare a 88 anni il 21 aprile 2025), il “folle di Dio“, come amava definirsi anche il santo di cui ha scelto il nome.

Javier Cercas Il folle di Dio alla fine del mondo

Ma oltre che unico, perché mai il Vaticano aveva aperto le sue porte a uno scrittore con tanta generosità, Il folle di Dio alla fine del mondo (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia) di Javier Cercas è un libro profondo, il racconto personale che scaturisce dalla penna di un grande autore contemporaneo: “quasi un thriller su quello che è il più antico mistero della storia dell’umanità”, per l’autore di Soldati di Salamina (Premio Grinzane Cavour 2003), anche membro della Real Academia Española.

È vero che esiste la vita dopo la morte? Nella forma narrativa che lo ha reso celebre, quella del “romanzo senza finzione”, Cercas (nato nel 1962 a Ibahernando, Cáceres, e tradotto in più di trenta lingue) cerca una risposta alla domanda che nessuno può fare a meno di porsi, fondendo in queste pagine le sue più intime ossessioni con una delle preoccupazioni fondamentali della società contemporanea: il ruolo della spiritualità e della trascendenza nella vita umana, che inevitabilmente si confronta con la religione e con il desiderio di immortalità.

Un libro nato due anni fa, ad agosto, quando Cercas viene invitato a seguire Bergoglio nella visita del Papa in Mongolia, con la possibilità di scriverne liberamente.

Intervistato da Repubblica, lo scrittore ha parlato così del pontefice: “(…) Non ha mai fatto niente per nascondere la sua insofferenza alla papalatria, al culto della personalità che fatalmente circonda la sua persona. Un’idealizzazione che lui vive come un’aggressione, un atto quasi offensivo, perché il Papa non è superman, ma un uomo come tutti gli altri”.

E ancora: “(…) Bergoglio è ancora un uomo in lotta con sé stesso: contro il proprio carattere, contro le proprie debolezze, contro i propri demoni. Per questo le prime parole pronunciate nella Cappella Sistina dopo la sua elezione sono state: ‘Anche se sono un grande peccatore’. Ma è questo a renderlo davvero un cristiano seduto sul trono di Pietro: perché la Chiesa è quella dei peccatori e non dei virtuosi, dei deboli e non dei forti. Non è stato il fondatore della Chiesa a tradire Cristo per ben tre volte?“.

Fonte: www.illibraio.it


“C’è molta speranza (ma nessuna per noi)”: il nuovo romanzo di Nicola H. Cosentino


Scrittore e critico letterario classe 1991, Nicola H. Cosentino – collaboratore dell’inserto La Lettura del Corriere della Sera e già vincitore del Premio Brancati Giovani 2018 con il romanzo Vita e morte delle aragoste (Voland, 2017), dopo Le tracce fantasma (minimum fax, 2022) torna in libreria con il romanzo C’è molta speranza (ma nessuna per noi), pubblicato da Guanda.

Il protagonista del nuovo libro di Cosentino, H, non ne può più del pessimismo che lo circonda, e nemmeno del proprio: approdato a Milano dalla provincia calabrese, ha dedicato gli ultimi anni a scrivere un saggio sulla fine del mondo, ma la Storia – tra guerre, pandemie e disastri vari – gli ha offerto troppo materiale, tanto da rendere il suo lavoro superato. Decide allora di cambiare rotta, e concentrarsi su tutt’altro: i desideri

C’è molta speranza (ma nessuna per noi) si pone come “un inventario delle piccole cose quotidiane, in grado di cogliere l’essenza di quei momenti apparentemente trascurabili che, a pensarci bene, ci fanno vivere davvero”. Come “un romanzo che oscilla tra il personal essay, l’inchiesta e il pamphlet“. Al centro c’è un giovane uomo che ambisce non tanto a concretizzare i propri obiettivi (trovare un lavoro stabile, una casa più grande, scrivere un buon libro…) quanto a poterseli permettere.

copertina di C'è molta speranza (ma nessuna per noi)

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Uomo del suo tempo

Perché lo so, chi sono. Maschio, italiano, trentadue anni, 186 cm per 70 kg, superficiale e profondissimo, individualista e generosissimo, a proprio agio con la definizione di «uomo del suo tempo» soprattutto se per «suo» s’intende «di un altro» – uomo del tempo di Banksy, per esempio, o di Sally Rooney, di Jannik Sinner, di Taylor Swift; un tempo che per ora è il secondo decennio del 2000, cuore o galleria del cosiddetto Antropocene, ma tra poco sarà il conto alla rovescia per l’apocalisse. Professione: «scrittore» dice di sé arrossendo, perché l’empireo della scrittura-e-basta si erge su una decina di cieli diversi, e perciò dice anche: «critico letterario, giornalista, correttore di bozze, editor, standista, scout, bookstagrammer, ghostwriter, copywriter, revisore di traduzioni, marchettaro, consigliere a titolo gratuito, modello delle mani che sfogliano i libri, risolutore encomiabile di cornici concentriche, interprete turnista del celebre aforisma di Joseph Conrad ‘Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo…’ eccetera, moderatore, relatore, sognatore». Tutto contemporaneamente, disperatamente. Ha una madre, un padre, una compagna, un fratello, l’automobile nera più sporca di Milano, una casa in affitto col prezzo bloccato all’era pre-Covid, tre piante – monstera, sansevieria, pothos – in perenne stato di calamità, un aneddoto eccellente con cui vince ogni gara di figure di merda e una friggitrice ad aria grazie alla quale inganna un’alimentazione fortemente limitata da una tendenza alla ipercolesterolemia.
Ah, e da qualche parte conserva la mappa per un avvenire luminoso (che comincia quando, esattamente?).

Grazie al cazzo, dottore

«Forse, perché questo avvenire cominci» ha osservato il mio psicologo, «deve riconsiderare il suo rapporto con la letteratura. Ringraziare i libri per ciò che le hanno dato e porli sotto una nuova luce. Smettere di usarli come freccia, e iniziare a farne un arco. Capisce cosa intendo?»
«Che devo smettere di scrivere? Che devo trovarmi un lavoro vero?»
«Non sarei così drastico, H. Però… Non sempre quello che vogliamo, o meglio, la forma in cui lo vogliamo, è quello che ci rende felici. Ha mai pensato di fare letteratura insegnando letteratura? A scuola?»
«Sì, certo. Sarebbe molto bello.»
Lui mi ha guardato con un sorriso che intendeva mettere un punto alla questione. «E allora ha trovato un nuovo modo di canalizzare la sua vocazione.»
«Eh, magari, dottore. Non posso.»
«Lei crede di non potere. Ma può. Si sente in ritardo, si sente colpevole. Ma non lo è. Provi a dirsi: lo desidero e me lo merito. Provi a dirsi: non sono un impostore.»
«Ma lo sarei, se provassi a insegnare lettere.»
«Perché? È preparato, empatico, giovane. Ha a cuore la materia. Ha voglia di riscatto. Le serve un lavoro stabile. Perché vuole continuare a mettere degli ostacoli fra lei e la realizzazione dei suoi sogni?»
«Per un motivo semplice, dottore.»
«Che sarebbe?»
«Io sono laureato in Scienze Politiche.»

E poi 

E poi, dopo gli studi, ho trovato impiego presso l’apocalisse. Non nel senso che sono diventato un profeta, o il Cavaliere della carestia, ma più semplicemente che ho dedicato i migliori anni della mia giovinezza a pensare alla fine del mondo, intesa prima come rappresentazione e poi come realtà in divenire. Di Apocalisse a poco a poco ho già detto, provo a spiegare meglio il resto, con l’aiuto di due istantanee dall’ultimo decennio, riportate in ordine non cronologico.

The End is the Beginning is the End 

La prima mi ritrae affacciato alla finestra di casa, a Milano, all’alba di un giorno di inizio aprile del 2020. Sto rispondendo alle domande di un conduttore radiofonico in qualità di esperto di « letteratura dell’allarme », cioè di romanzi distopici e post-apocalittici. Il solo che abbiano trovato, suppongo. L’intervista dura quindici minuti. Fra le poche domande che il conduttore mi pone, quella d’esordio è, ovviamente: «Ci spiega che cos’è una distopia?»
La so. Il termine «distopia» si deve alla combinazione, pare a opera del filosofo John Stuart Mill, del prefisso dis, che segnala qualcosa di negativo e malfunzionante, con la parola topos, luogo. Opportunamente traslitterati, dis e topos derivano entrambi dal greco antico, e aiutano Mill a rovesciare, per la prima volta nella storia, il concetto di «utopia». Una distopia è, quindi, il contrario di un paradiso, lo scenario peggiore possibile o, come ha scritto Arrigo Colombo, «il modello di una società perversa». E nei romanzi viene spesso utilizzata come dispositivo d’allarme, un bengala che avverta il lettore di un pericolo in avvicinamento.
«E siamo stati avvertiti, di questa pandemia?» mi chiede lo speaker. «Qualche romanzo l’aveva prevista?»
Il quesito, esplicito, ne contiene un altro, implicito: Se sì, come andrà a finire? Guardo l’incrocio sotto casa, il semaforo giallo che lampeggia a vuoto. Riflesso nel vetro della finestra c’è il nostro tavolo da pranzo, e sul tavolo da pranzo il pc di Alzata Con Pugno, che a breve si sveglierà, compirà il solito percorso in venti passi dal letto al bagno, dal bagno alla cucina e dalla cucina a questo tavolo, dove, vestita da sirena della quarantena – busto da donna-là-fuori, leggings e infradito da donna-qua-dentro –, si metterà gli auricolari e farà pazientemente il suo nella gestione dell’emergenza per l’azienda in cui lavora.
«No» ammetto. «Nessun romanzo lo aveva previsto.»
Qualche minuto più tardi l’intervista finisce e parte, non a caso, The End is the Beginning is the End degli Smashing Pumpkins. Rocco ha messo la sveglia alle cinque per sentirmi, e mentre Billy Corgan canta «We can watch the world devoured in its pain» pensa bene di scrivermi – senza entrare nel merito del discorso, perché il merito del discorso è la morte: «Orgoglioso di te. E pure di me. Mai ascoltato una trasmissione tanto noiosa così a lungo».

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it


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Buona lettura!


“Tempo di ritorno”: con Ferdinando Cotugno una storia autobiografica di clima e fantasmi


Nato a Napoli nel 1982, il giornalista Ferdinando Cotugno, autore di saggi come Italian Wood (Mondadori, 2020) e Primavera ambientale – L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022), debutta con la sua prima opera narrativa, Tempo di ritorno – Una storia di clima e di fantasmi, un memoir che si presenta come “un’autobiografia climatica“: “Anche se l’ecologia è stata il centro della mia vita e il cambiamento del clima è una delle mie paure più grandi”, scrive infatti Cotugno, “la mia famiglia è stata un tempo una piccola nazione fondata sui combustibili fossili, un minuscolo emirato napoletano del carbone e del gasolio…”.

Tempo di ritorno Una storia di clima e fantasmi ferdinando cotugno

In statistica, il tempo di ritorno è la probabilità che un evento estremo si verifichi. È il tempo che ci mettono a ripresentarsi i grandi traumi, gli amori, gli scudetti, gli attacchi di panico, i messaggi che disperatamente aspettiamo, le ondate di calore, le alluvioni. La crisi climatica, con le sue catastrofi a distanza sempre più ravvicinata, ci ha trasformato in una società post-traumatica di massa. Nel libro di Cotugno (curatore della newsletter e del podcast Areale per Domani, e conduttore del podcast Ecotoni, dedicato ai boschi italiani), però, il tempo di ritorno è anche il viaggio a ritroso del protagonista nella storia della sua famiglia: il nonno operaio all’Italsider, il padre camionista, la madre che passa dagli studi umanistici alla gestione di una ditta di trasporti. Una storia di carbone e gasolio che nasce e riannoda i suoi fili nella zona industriale di Napoli, e si fa parabola per raccontare l’Italia intera dal dopoguerra a oggi.

Non è una storia di clima ma, come ogni storia, è anche una storia di clima“. Due generazioni che si ritrovano: quella dei padri che hanno lottato per uscire dalla povertà e costruire un piccolo benessere, e quella dei figli che quel benessere lo hanno ereditato, assieme a un mondo sul punto di collassare. Per l’autore, infatti, solo se impariamo ad abitare questa contraddizione e riconosciamo di essere compro­messi in prima persona con il processo che sta conducendo la Terra all’inabitabilità, ­possiamo provare a sovvertire quello che sembra un destino già tracciato.

Questo libro è dunque il racconto in prima persona, “struggente e a tratti ironico”, del “viaggio nella storia delle nostre famiglie, nel paesaggio industriale di Napoli, di Milano, del mondo globale”; per ricordarci che “l’ecologia è l’amore di chi non ha alternative. Non abbiamo un altro posto dove andare, ma abbiamo delle storie da cui partire per immaginare un futuro, magari non perfetto, ma possibile”.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal quarto capitolo:

Bagnoli, 2023

Sono passati già sessant’anni dalle nuotate per pescare coke di fronte al cantiere, è un’estate del nuovo millennio, non lo sappiamo ancora ma il 2023 risulterà l’anno globalmente più caldo affrontato dalla civiltà umana, e poi sarà superato dal 2024, e poi da chissà quanti altri. Luigi è di nuovo qui, a Bagnoli, nel suo vecchio quartiere, insieme a me. In questi sei decenni è diventato adulto, si è sposato, è diventato mio
padre, ha cambiato quartiere, sono nato io, lui ha cambiato di nuovo quartiere, io sono cresciuto, me ne sono andato via, sono tornato a casa, e lui è diventato vecchio, ha divorziato e si è risposato. Nel frattempo le distanze tra noi sono rimaste incolmabili e il mondo è scivolato lungo il suo piano inclinato verso il collasso, senza che trovassimo granché a cui aggrapparci o da dirci.

Oggi siamo padre e figlio, ben oltre la fine di quella rivoluzione industriale italiana del carbone e dell’acciaio, seduti in auto di fronte alla fabbrica di suo padre, smantellata e dismessa da trent’anni, perché secondo la logica del capitalismo non serviva più produrre a Bagnoli. L’imprenditoria di Stato che aveva industrializzato il quartiere dei bagni era stata sostituita dall’ortodossia liberista che fa spostare le produzioni dove è più conveniente per il capitale, nella ricerca permanente di forza lavoro a buon mercato come erano i napoletani degli anni ’50. Decide il mercato. Il decennio di Reagan e Thatcher si era concluso con lo spegnimento del fuoco a Bagnoli, quando io finivo le elementari gli operai hanno dovuto cercarsi altro da fare e in gran parte hanno lasciato il quartiere.

Mio padre tiene la sua Citroën grigia lercia come una discarica, l’auto più sporca di tutta Italia: sotto il tappetino una volta ho trovato cenere di sigaro, quattro euro e venti centesimi in monete, l’opuscolo di una chiesa evangelica, un cd senza custodia di Fiorella Mannoia. Non ho fatto domande. Da tempo lui ha abbassato l’asticella dell’igiene personale e ha smesso di vedere i detriti che si accumulano nella sua vita. Io sono il passeggero, o forse sono anche io un detrito, o entrambe le cose, sia figlio che costo irrisolto.

Questa è una città che non apprezza la discrezione. La gente che se ne sta per conto proprio, come noi ora davanti alla fabbrica, ispira sospetti. Chi passa rallenta, ti guarda, si fa domande. A Napoli risolversi questioni personali in luoghi pubblici senza il contributo della comunità degli estranei è un tradimento. Non esistono liti private in pubblico. Essere introversi come te e me a Napoli è un supplizio. Temo che qualcuno venga a chiederci: che state facendo fermi davanti all’Italsider? Non so cosa risponderei, non sarebbe facile spiegarlo. Mettiamola così: tu, papà, sei stato un soldato di questa vicenda umana di combustione e collasso, io sono sia il soldato che il disertore. Non è un merito il mio, né una colpa la tua. È solo che siamo nati in punti diversi del tempo umano, tu nell’epoca in cui si poteva inquinare senza pensieri, io in quella in cui si doveva per forza iniziare a smettere.

Non avevamo mai fatto una cosa del genere insieme. È come provare a togliersi una crosta secolare, indistinguibile dalla chimica della nostra pelle.

Ti ho chiesto: Mi porti a vedere il posto dove sei nato? Tu, una mattina di molte settimane dopo, hai accostato davanti al muro di cinta dell’Italsider, che è ancora in piedi, l’ultimo muro italiano del Novecento, a difesa di niente che non siano scheletri, ferraglia e vegetazione spontanea. Hai frenato male, inchiodando, mi hai sorpreso, ti ho guardato allargando le braccia, come se volessi proteggermi e allo stesso tempo formularti una domanda: Che succede, pa’.

Ho provato a seguire il consiglio del barista: ascoltare molto, parlare poco. Anche nel tuo ultimo involucro fragile, sei l’automobilista più affidabile che conosca. Se c’è una cosa che sai fare, che sai davvero fare, è guidare. Se dovessi farlo per salvarci la vita scappando in auto da un incendio o una rivolta, troveresti ancora il modo, facendo slalom tra umani e macerie, ma in questo momento, davanti alla vecchia fabbrica di tuo padre, hai frenato come un neopatentato senza sensibilità nei piedi o dello spazio.

Per te è inconcepibile che un essere umano non sia in grado di guidare. Tutti sanno già guidare, devono solo stare calmi e ricordarsene. È come nuotare, camminare o respirare. Avevo cinque anni quella volta che mi hai tenuto in braccio mentre eri al volante, una domenica lungo un viale vuoto nell’altra zona industriale di Napoli, il quadrante orientale di raffinerie e capannoni tra la stazione, San Giovanni a Teduccio e Barra, dove sorgeva il terminal petroli. Era l’area industriale dove andavi a lavorare ogni giorno, opposta e simmetrica a quella di tuo padre. La Napoli dei professionisti, dei ristoranti e dell’oleografia era, oggi come allora, in mezzo tra le due ali produttive, a succhiare il lavoro di entrambe per garantire lo stile di vita di notai, commercialisti, avvocati, dentisti, cardiologi, professori, cuochi e proprietari di alberghi. Per gioco, quella volta avevi lasciato il volante, ci avevi appoggiato le mie mani. Mi hai terrorizzato, ho ritratto le dita come se scottasse, sono scoppiato a piangere. In quel momento, se non l’amore, ho dissolto almeno parte del tuo entusiasmo. Volevi iniziarmi alla guida come avevano fatto con te per l’acqua: vai e nuota. Non ero adatto a quello stile educativo e ti ho privato di un pezzo di gioia dell’essere padre nel momento in cui hai scoperto che può esistere un figlio che non prova alcuna euforia, nemmeno teorica, a tenere i comandi di un veicolo a motore, e che quel figlio era toccato proprio a te.

A che serve avere un maschio se non vuole guidare la tua macchina già a cinque anni? A nuotare ho dovuto imparare da solo, e l’ho fatto da adulto, perché temevi che avessi la stessa reazione con l’acqua, e forse non avresti retto. Quando ho raggiunto l’età, davvero hai provato a insegnarmi a guidare direttamente in autostrada, di nuovo come a te avevano insegnato a stare in mare, come una cosa che si ricorda e non come una cosa che si impara. Pensavi che il pericolo e la velocità mi avrebbero aiutato a ricordare più in fretta. Avevo alle spalle cinque guide con la scuola, avevo appena capito come si usa la frizione, e abbiamo imboccato l’autostrada salendo su una rampa che mi era sembrata l’accesso diretto all’aldilà. Non era più un gioco, non avevo idea di quello che stavo facendo, ma nemmeno tu, stringevo il volante così forte che mi hai detto: guarda che non cade, poi ho sbagliato la traiettoria di ingresso al casello, me l’hai corretta con uno strattone della mano sinistra sul volante, come un istruttore pazzo. Abbiamo rischiato di ammazzarci, quel giorno, non so come siamo sopravvissuti.

Ferdinando Cotugno
Giornalista e autore di saggi come Italian Wood e Primavera ambientale, Ferdinando Cotugno è al debutto nella narrativa con Tempo di ritorno -Una storia di clima e fantasmi.

Dalla volta successiva mi sono rivolto a mamma, che tratta le automobili come andrebbero trattate, cioè come armi, strumenti di morte, di cui fare uso solo se strettamente necessario. Per te no, papà, per te la morte è al massimo la sosta dopo il viaggio. La potenza di calcolo della tua mente, quando leggi il traffico di tre corsie davanti ai tuoi occhi, andrebbe studiata in un laboratorio. Ci si potrebbero vincere delle guerre. In quel momento sei padrone di te e del cosmo, un monarca illuminato che non ha bisogno di andare troppo veloce né troppo piano.

Da anni provavo a spiegare confusamente il mio progetto a chiunque avesse la pazienza di ascoltare: un giorno vorrei scrivere la storia di mio padre, compilare insieme a lui la genealogia familiare delle fonti di energia, l’araldica inorganica di gasolio e carbone dalla quale discendiamo io, questo paese, e la civilltà umana in generale. I miei interlocutori annuivano, come si fa con i pazzi che nelle città ad agosto diventano vistosi e loquaci. Io stesso mi sono trattato così, ho procrastinato, è passato un anno, poi ne sono passati due, mentre quelli che erano stati i tuoi generali di un tempo in questa guerra fossile continuavano a trivellare, pompare, vendere, scambiare, manomettere la verità e nessuno sembrava più nemmeno pensare di sapere come si ferma una cosa così, il precipizio di una specie che getta le basi per la propria estinzione votandola nei consigli di amministrazione di un centinaio di aziende pubbliche, private o metà e metà.
Poi la realtà si è intromessa, ricordandomi una verità che è alla base del nostro rapporto col clima come con le famiglie: il tempo a nostra disposizione è limitato.

Sei stato tu a smuovermi, perché alla fine hai deciso di andartene per sempre, come dicevi da decenni, e lo fai proprio ora che sei così vecchio e malandato. Non ce la fai più a fare sei mesi a Napoli e sei in Brasile. Me l’hai comunicato come comunichi tu le novità improvvise, come ovvietà che qualcuno doveva pur dire ad alta voce…

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it


Premio Strega 2025: ecco i primi 32 libri proposti ufficialmente


Confermate molte delle indiscrezioni raccolte da ilLibraio.it un mese fa legate all’edizione 2025 del Premio Strega: è stato infatti comunicato il primo gruppo di titoli proposti dagli Amici della domenica (il termine ultimo per l’invio delle proposte è venerdì 28 febbraio).

Premio Strega 2025 Manifesto MP5

Qui di seguito i titoli:

  1. Andrea Bajani, L’anniversario (Feltrinelli), proposto da Emanuele Trevi.
  2. Dario Buzzolan, Baracca e burattini (Mondadori), proposto da Massimo Gramellini.
  3. Nicola Campiotti, Tutto tra noi è infinito (Sperling & Kupfer), proposto da Giovanna Melandri.
  4. Emanuele Canzaniello, Breviario delle Indie (Wojtek), proposto da Giuseppe Montesano.
  5. Piera Carlomagno, Ovunque andrò (Solferino), proposto da Valeria Parrella.
  6. Giuseppe Cerasa, Sipario siciliano. Storie di donne, passioni, segreti, mafia ed eroi senza gloria (Aragno), proposto da Antonio Monda.
  7. Antonella Cilento, La babilonese (Bompiani), proposto da Sandra Petrignani.
  8. Simona Dolce, Il vero nome di Rosamund Fischer (Mondadori), proposto da Filippo La Porta.
  9. Paola Fabiani, Corallium (Helicon), proposto da Marcello Rotili.
  10. Mario Falcone, Leuta (Arkadia), proposto da Gianpiero Gamaleri.
  11. Angelo Ferracuti, Il figlio di Forrest Gump (Mondadori), proposto da Lorenzo Pavolini.
  12. Dario Franceschini, Aqua e tera (La nave di Teseo), proposto da Romano Montroni.
  13. Michele Gambino, Un pezzo alla volta. Storia di un giornalista e del suo tempo (Manni), proposto da Carlo D’Amicis.
  14. Giorgio Ghiotti, Casa che eri (Hacca), proposto da Giulia Caminito.
  15. Wanda Marasco, Di spalle a questo mondo (Neri Pozza), proposto da Giulia Ciarapica.
  16. Renato Martinoni, Ricordi di suoni e di luci. Storia di un poeta e della sua follia (Manni), proposto da Pietro Gibellini.
  17. Michele Masneri, Paradiso (Adelphi), proposto da Gian Arturo Ferrari.
  18. Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo (Mondadori), proposto da Giuseppe Antonelli.
  19. Piergiorgio Paterlini, Confiteor (Piemme), proposto da Lorenza Foschini.
  20. Gianluca Peciola, La linea del silenzio. Storia di famiglia e di lotta armata (Solferino), proposto da Gioacchino De Chirico.
  21. Alessandro Perissinotto, La guerra dei Traversa (Mondadori), proposto da Alessandro Barbero.
  22. Nikolai Prestia, La coscienza delle piante (Marsilio), proposto da Daniele Mencarelli.
  23. Annella Prisco, Noi, il segreto (Guida), proposto da Corrado Calabrò.
  24. Stefano Rapone, Racconti scritti da donne nude (Rizzoli Lizard), proposto da Beppe Cottafavi.
  25. Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare (Rizzoli), proposto da Giorgio Ficara.
  26. Paolo Ruffilli, Fuochi di Lisbona (Passigli), proposto da Maurizio Cucchi.
  27. Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa), proposto da Walter Veltroni.
  28. Emiliano Sbaraglia, Leggere Dante a Tor Bella Monaca (E/O), proposto da Marco Cassini.
  29. Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda), proposto da Salvatore Silvano Nigro.
  30. Giorgia Tolfo, Wild Swimming (Bompiani), proposto da Laura Pugno.
  31. Giorgio Van Straten, La ribelle. Vita straordinaria di Nada Parri (Laterza), proposto da Edoardo Nesi.
  32. Grazia Verasani, Hotel Madridda (Marsilio), proposto da Enrico Deaglio.

Nel frattempo, come abbiamo raccontato, l’ambito riconoscimento romano ha inaugurato una sezione tutta dedicata ai saggi: è stato infatti presentato il Premio Strega Saggistica, che segna un ulteriore ampliamento della storica manifestazione istituita nel 1947. “Con questa nuova categoria, il Premio Strega completa il suo ventaglio di riconoscimenti, consolidando il proprio ruolo di punto di riferimento nella valorizzazione della letteratura. Dopo decenni di promozione della narrativa, il Premio ha saputo rinnovarsi nel tempo, ampliando il proprio orizzonte alla letteratura europea, alla letteratura per ragazzi e alla poesia. Questa costante evoluzione testimonia la capacità di adattarsi ai mutamenti del panorama editoriale e di raggiungere un pubblico sempre più ampio e diversificato”.

Fonte: www.illibraio.it