Frasi sulla leggerezza, alcune fra le più belle tratte dalla letteratura


Una filosofia di vita? Un’arte? Una necessità? Probabilmente il concetto di leggerezza risponderebbe bene a tutt’e tre queste definizioni, fondamentale com’è in un mondo che tende sempre di più a correre, a prendersi sul serio e ad appesantirci con mille pensieri.

Non per niente, del resto, è da secoli che scrittori e scrittrici di ogni dove si interrogano sulle sue caratteristiche, cercando di afferrarla e di darle una forma senza però spezzarne l’incanto. Perché a evocarla basta poco, certo, ma rimane poi altrettanto facile rendere la leggerezza un’artificiosa caricatura di sé stessa.

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Dalle parole di Apuleio a quelle di Jerome K. Jerome, passando per Marina Cvetaeva e per Milena Jesenská, ecco quindi una selezione di alcune fra le più belle frasi sulla leggerezza tratte dalla letteratura, per riscoprirne il valore intrinseco e tornare a considerarla una parte integrante della nostra quotidianità…

Frasi sulla leggerezza tratte dalla letteratura

Cominciamo da una frase tratta da Tutto è vita (Guanda, a cura di Dorothea Rein) della giornalista, autrice e traduttrice ceca Milena Jesenská (1896-1944), che ci aiuta a far luce su un aspetto fondamentale: calcare la mano sulla leggerezza sarebbe un errore, tanto quanto pretendere che sia l’unico principio in grado di guidare le nostre azioni, anche se prenderla in considerazione al momento giusto può davvero fare la differenza…

Prendere sul serio la leggerezza è di cattivo gusto. Ma assaporare la leggerezza senza lasciarsene prendere la mano è una forma superiore di vita.

A rendere ancora più esplicito questo punto di vista è stato lo scrittore, poeta e filosofo francese Paul Valéry (1871-1945), che nell’opera Tel quel (it. Tal quale), pubblicata nel 1943, ha evidenziato la differenza fra leggerezza e superficialità con una doppia similitudine, sintetica eppure al tempo stesso estremamente efficace, che potremmo considerare una massima universale di comportamento:

Bisogna essere leggeri come un uccello e non come una piuma.

Una frase sulla leggerezza di Paul Valéry

Dal paragone con il librarsi in cielo passiamo ora a uno più legato al mondo marino, un famoso passo sulla leggerezza contenuto nel romanzo Tre uomini in barca (Garzanti, traduzione di Alba Bariffi) di Jerome K. Jerome (1859-1927). Qui infatti, lo scrittore, giornalista e umorista britannico ci ricorda che non ha senso sovraccaricarci di aspettative, pulsioni e desideri, e che una vita leggera è spesso una vita più felice:

Liberatevi della zavorra, uomini! Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa.

Dopotutto, lo sosteneva già nel II secolo l’autore latino Apuleio (125-180 circa) nell’opera apologetica Della magia (Garzanti, traduzione di Concetto Marchesi), evidenziando che anche nelle situazioni meno liete possiamo restare a galla se evitiamo i pesi inutili, trovando proprio nella leggerezza una strategia di sopravvivenza, un salvagente, un modo per non perdere di vista l’essenziale e tornare gradualmente a prendere fiato:

Per vivere, proprio come per nuotare, va meglio chi è più privo di pesi, ché anche nella tempesta della vita umana le cose leggere servono a sostenere, quelle pesanti a far affondare.

Una frase sulla leggerezza di Apuleio

E concludiamo con una frase della celebre scrittrice e poetessa russa Marina Cvetaeva (1892-1941), che in una lettera a Myroslav Yurkevich del 1916 associò questo termine a un senso più ampio e più profondo di benessere personale e interpersonale, fatto di rispetto reciproco, di autodeterminazione e di ascolto, che non potrebbero coesistere senza il collante di una leggerezza consapevole ed empatica:

Io voglio leggerezza, libertà, comprensione − non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga.

E quella famosa frase di Italo Calvino?

Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.

Probabilmente sarà capitato anche a voi, una volta o l’altra, di imbattervi anche in questa frase sulla leggerezza attribuita allo scrittore italiano Italo Calvino (1923-1985), ma sapevate che in realtà si tratta di una citazione che non figura nel volume Lezioni americane (Mondadori) al quale viene associata?

Nel febbraio 2022 la giornalista Alessandra Chiappori ci ha tenuto a segnalarne l’attribuzione errata, riprendendo un commento del 2018 che era stato pubblicato sulla piattaforma X (ex Twitter) dalla stessa figlia dello scrittore, Giovanna Calvino, in risposta a un post.

In ogni caso, di per sé, le sei proposte per il nuovo millennio concepite dall’autore in vista di un ciclo di lezioni che avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard includono anche il concetto di leggerezza, che peraltro è il primo in ordine di apparizione.

Trattandosi di un discorso legato alle future possibilità nel campo della scrittura, in un contesto – quello del tardo Novecento – sempre più segnato da importanti trasformazioni culturali, Calvino la definisce in primis come una “sottrazione di peso” da applicare ai personaggi di una storia, alla sua struttura e al suo linguaggio, citando poi svariate opere letterarie da cui prendere spunto.

Ma è tutto qui? Certo che no: alcune riflessioni contenute in Lezioni americane sulla leggerezza prendono poi una piega meno tecnica e più suggestiva, arricchendosi di spunti di riflessione ancora molto attuali. Se vi interessa saperne di più, vi rimandiamo a questo nostro articolo che abbiamo dedicato più nel dettaglio all’argomento…

Fonte: www.illibraio.it


Premio Strega Poesia 2025, ecco la cinquina finalista


Sono stati annunciati i libri finalisti del Premio Strega Poesia 2025, promosso da Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e Strega Alberti Benevento, in collaborazione con BPER Banca e con Tirreno Power, media partner RAI, sponsor tecnici Librerie Feltrinelli e SYGLA.

I cinque libri finalisti selezionati dal Comitato scientifico – composto da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa, Mario Desiati, Elisa Donzelli, Roberto Galaverni, Vivian Lamarque, Melania G. Mazzucco, Patricia Peterle, Stefano Petrocchi, Laura Pugno, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta – sono:

  • Alfonso Guida, Diario di un autodidatta, Guanda.
  • Giancarlo Pontiggia, La materia del contendere, Garzanti.
  • Jonida Prifti, Sorelle di confine, Marco Saya.
  • Marilena Renda, Cinema Persefone, Arcipelago Itaca.
  • Tiziano Rossi, Il brusìo, Einaudi.

cinquina premio strega poesia

Queste le motivazioni:

Alfonso Guida, Diario di un autodidatta, Guanda

Un io, la sua terra, le esperienze vissute sono i fili che tessono insieme la trama di una vita, che in questa poesia si espone e si mette a disposizione dell’ascolto dell’altro, attraverso una lingua di “pietra” fatta dell’aspro paesaggio della Lucania. Un’immersione nel sé («figura di troppi lati»), nella sua profonda solitudine, senza narcisismi e certezze, è il punto di confluenza ed esplosione tra vita e scrittura in Diario di un’autodidatta. In queste pagine echeggiano voci di memorie familiari, di amori vissuti, di traumi accumulati negli anni, e anche di fantasmi: «Parlavo strambi linguaggi di vento». In un confronto che si fa duro e nudo: «La strada non c’era, ma ho cominciato / presto a camminare. Non c’era niente. / Solo un vuoto orrido da cui pendevo. / Questo sentirmi attinto da un coltello». Versi che possono evocare la voce di una Amelia Rosselli (“Non ho un mondo pronto per me e così parto per un mondo meno pronto per me”), ma anche quella di altri che sono chiamati ad accompagnare i passi inquieti del poeta. Un andare avanti, dettato da un ritmo interiore, da un disseppellire e dissipare, che diviene una complessa operazione in cui la parola materica si fa sonda («Sondare è scarcerare») di una condizione esistenziale; insomma, uno scandagliare e perforare obliquamente, perché è «da una tregua spaventata», «da una riva» che Alfonso Guida scrive, in una soglia in cui tutti possiamo affacciarci e riconoscerci.

Giancarlo Pontiggia, La materia del contendere, Garzanti

La materia del contendere di Giancarlo Pontiggia, edito da Garzanti, è, senza esitazioni, un libro presocratico: che qui è un altro modo per dire sapienziale, della sapienza di un tempo presente e futuro in cui poesia e filosofia, strettamente unite in epoca antichissima e poi lungamente costrette a vagare separate per il mondo, finalmente possono riunirsi. Poesia pensiero, quindi, ma fatta di un dire essenziale e depurato, che cerca la natura degli elementi e insieme la natura della sua propria materia poetica: tanto che, nel parlare delle cose ultime, parla sempre anche del suo stesso farsi. Come la freccia di Zenone, questa scrittura riconcilia gli opposti elementi di movimento e stasi, in quell’operazione che compie sempre la poesia, quando è poesia.

Jonida Prifti, Sorelle di confine, Marco Saya

Non è questo il primo libro di carta di un’autrice che deve la sua notorietà – underground e sottotraccia, ci mancherebbe, ma abbastanza diffusa ormai – piuttosto al versante performativo: fra musica, spoken word, poesia sonora e declamazione più tradizionalmente “lirica”. Eppure Sorelle di confine si legge alla stregua di un esordio, nello sforzo di definire il più possibile una “posizione” destinata però a restare, e per fortuna, scissa e polimorfa: proprio come la biografia di chi esordisca alla scrittura in una terra e in una lingua diverse da quelle in cui è cresciuta (l’«atavismo riconquistato» – per dirla con Celan – dell’albanese si produce, così, solo a chiazze e con funzione, di nuovo, più “musicale” che narrativo-esperienziale). Decisivo è l’aggettivo che intitola il poemetto-guida Le portatrici carniche (dedicato a una vicenda toccante della memoria “di confine” di più d’un secolo fa). Al di là del toponimo, è nell’incarnazione del verbo e del mèlos che si definisce la promessa – ormai certa – d’una scrittura sfrontata e ribelle, laceratamente epica come non può non essere l’epos nel nostro tempo.    

Marilena Renda, Cinema Persefone, Arcipelago Itaca

Cinema Persefone parla a un lettore contemporaneo già avvezzo alle riletture del mito, non soltanto in prosa. Con gli dei e gli eroi della classicità si sono già cimentati poeti del calibro di Anne Carson e Kae Tempest, producendo narrazioni in versi dense ed eloquenti. Questo libro compatto ed enigmatico si confronta invece con il periodico inabissarsi e riemergere dall’oscurità di Persefone sprofondando nel non detto anche il plot (“il mistero non si può dire”), per poi lasciar affiorare micro-eventi carichi di luce. È un cinema, quello allestito da Marilena Renda, in cui il buio è rotto a sprazzi da frammenti suggestivi. Persefone è una ragazza che di notte sogna “di dirne quattro alla madre”. Ade, bello come un divo dei giorni nostri, “porta la fanciulla a casa sua malvolentieri”. Lei gli piace molto, anche se lui ha “le foto dell’altra ancora nella galleria del cellulare”. E la vicenda è davvero tutta qui: è l’eterno accendersi, spegnersi e riaccendersi del desiderio (“Ade è vivo da sempre / desidera sempre”). Scrive Renda che “ogni cosa bella viene dall’oscurità”, anche l’amore che si fa al buio è più potente di ogni altra cosa. È la legge del sottrarsi per non appassire/ammansire, l’arte di far coincidere l’inizio con la fine. Questo ci dice una voce sapienziale vecchia come il mondo eppure straordinariamente sensuale: “se non vai all’inferno l’estate non germoglia”.

Tiziano Rossi, Il brusìo, Einaudi

Nell’ultimo quarto di secolo la scrittura di Tiziano Rossi ha alternato nuove scosse a lunghi assestamenti. All’onorevole carriera poetica riassunta da un collected del 2003 ha fatto seguito una sorprendente “svolta” in prosa, con cinque piccoli libri da ascrivere tra i più fragranti nell’écriture senza partizioni del nuovo secolo. Raccolta anche quell’esperienza nell’antologia Gli sfaccendati, è di nuovo tempo di versi. Nel frattempo però il decano della nostra poesia ha doppiato il capo dei Novanta, e così il nuovo capitolo si dice «atto penultimo», non ignaro dell’esperienza residuale dell’«io minimo» sperimentato in prosa. Negli anni Ottanta diceva un suo quasi coetaneo, Christopher Lasch, che in «epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza», e «l’io si contrae». Quello del lungodegente autoritratto in una «corsia» beckettiana è ridotto a un «perpetuarsi» da «insetti», o altre vite infinitesime capaci solo d’un «parlottìo» o d’un «ronzìo», quale è questa sua terminale «pioggerellina» poetica. Nell’approntarsi sgocciolanti al «nuovo trasloco», si comprende infine la natura di quanto interminabilmente lo ha preceduto: «Ora il finto spettacolo è finito / la digressione».

premio strega poesia

Alla serata, ospitata dal MAXXI L’Aquila – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, e condotta da Fabio Emilio Torsello e Mara Sabia della Setta dei Poeti estinti, sono intervenuti Paola Macchi, segretario generale della Fondazione MAXXI e Pierluigi Biondi, sindaco L’Aquila, e Giuseppe La Boria, Direttore Regionale Marche Abruzzo BPER Banca.

I candidati hanno letto alcuni testi tratti dalle opere in gara con gli interventi musicali di Whalebones (Francesco Diodati e Stefano Calderano).

Una giuria composta da circa 100 personalità della cultura determinerà l’opera vincitrice che verrà proclamata il prossimo 8 ottobre a Roma, alla Casa dell’Architettura di Roma presso il complesso monumentale dell’Acquario Romano. I giurati riceveranno i libri grazie alle Librerie Feltrinelli e potranno esprimere la loro preferenza tramite voto telematico.

La cinquina sarà ospite in diverse località italiane particolarmente attive sul territorio nella promozione della lettura. Queste le tappe: 16 maggio al Salone Internazionale del Libro di Torino, ore 18.15 Sala viola, 11 luglio a Civitavecchia; il 17 luglio a Pula, nel complesso archeologico di Nora; il 22 luglio, a Festambiente Sud, San Marco in Lamis. Seguiranno altri appuntamenti in autunno: il 17- 21 settembre a Pordenonelegge; il 27 settembre a Teramo.

Fonte: www.illibraio.it


Arundhati Roy torna a ottobre con l’atteso memoir “Il mio rifugio e la mia tempesta”


Il memoir Il mio rifugio e la mia tempesta (in uscita a ottobre per Guanda, suo editore italiano), segna l’atteso ritorno di Arundhati Roy, l’autrice del bestseller Dio delle piccole cose, con cui vinse il Booker Prize nel 1997.

La scrittrice ha pubblicato anche numerosi saggi di non fiction e il romanzo Il ministero della suprema felicità, con cui è stata selezionata al Man Booker Prize nel 2017, tradotto in più di cinquanta lingue. Nel 2023, inoltre, ha vinto il prestigioso European Essay Prize for lifetime achievement, e nel 2024 il Pen Pinter Prize per saper raccontare “urgenti storie di ingiustizia con saggezza e bellezza”.

Roy

“Ho scritto questo libro per tutta la vita”, spiega Arundhati Roy. E aggiunge: “Forse una madre come la mia meritava una scrittrice come me per figlia. Ma ugualmente una scrittrice come me meritava una madre come lei“.

Con il cuore a pezzi all’indomani della morte della madre nel 2022, Roy inizia a scrivere per capire i sentimenti profondi e contraddittori per quella donna carismatica dalla quale si è allontanata all’età di diciotto anni “non perché non la amavo, ma per poter continuare ad amarla”.

Un viaggio nell’infanzia dell’autrice, negli anni che la portano alla scrittura e al successo che coincide con la vittoria del partito nazionalista indù, con le violenze e con la fine del suo matrimonio, con l’urgenza di impegnarsi per le cause politiche ed ecologiche. Un memoir che – si legge nella nota di Guanda – è un viaggio nella storia di una nazione e di una scrittrice attraverso la complessa e straordinaria relazione con sua madre, che per tutta la vita sarà per lei rifugio e tempesta: “Non è facile per me pensare che questa storia, in questo momento, diventerà pubblica, ma nello stesso tempo mi rassicura il fatto che sarà pubblicata dai migliori editori del mondo”.

 

Fonte: www.illibraio.it


Il “folle senza Dio” Javier Cercas a tu per tu con “folle di Dio”, Papa Francesco


Ecco un folle senza Dio che insegue il folle di Dio fino alla fine del mondo“.

Da questo attacco folgorante prende avvio un libro unico, che nessuno finora aveva avuto l’opportunità di scrivere. Il “folle senza Dio” è uno scrittore ateo e anticlericale, che si definisce laicista militante, mosso dal desiderio di parlare a tu per tu con Papa Francesco (venuto a mancare a 88 anni il 21 aprile 2025), il “folle di Dio“, come amava definirsi anche il santo di cui ha scelto il nome.

Javier Cercas Il folle di Dio alla fine del mondo

Ma oltre che unico, perché mai il Vaticano aveva aperto le sue porte a uno scrittore con tanta generosità, Il folle di Dio alla fine del mondo (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia) di Javier Cercas è un libro profondo, il racconto personale che scaturisce dalla penna di un grande autore contemporaneo: “quasi un thriller su quello che è il più antico mistero della storia dell’umanità”, per l’autore di Soldati di Salamina (Premio Grinzane Cavour 2003), anche membro della Real Academia Española.

È vero che esiste la vita dopo la morte? Nella forma narrativa che lo ha reso celebre, quella del “romanzo senza finzione”, Cercas (nato nel 1962 a Ibahernando, Cáceres, e tradotto in più di trenta lingue) cerca una risposta alla domanda che nessuno può fare a meno di porsi, fondendo in queste pagine le sue più intime ossessioni con una delle preoccupazioni fondamentali della società contemporanea: il ruolo della spiritualità e della trascendenza nella vita umana, che inevitabilmente si confronta con la religione e con il desiderio di immortalità.

Un libro nato due anni fa, ad agosto, quando Cercas viene invitato a seguire Bergoglio nella visita del Papa in Mongolia, con la possibilità di scriverne liberamente.

Intervistato da Repubblica, lo scrittore ha parlato così del pontefice: “(…) Non ha mai fatto niente per nascondere la sua insofferenza alla papalatria, al culto della personalità che fatalmente circonda la sua persona. Un’idealizzazione che lui vive come un’aggressione, un atto quasi offensivo, perché il Papa non è superman, ma un uomo come tutti gli altri”.

E ancora: “(…) Bergoglio è ancora un uomo in lotta con sé stesso: contro il proprio carattere, contro le proprie debolezze, contro i propri demoni. Per questo le prime parole pronunciate nella Cappella Sistina dopo la sua elezione sono state: ‘Anche se sono un grande peccatore’. Ma è questo a renderlo davvero un cristiano seduto sul trono di Pietro: perché la Chiesa è quella dei peccatori e non dei virtuosi, dei deboli e non dei forti. Non è stato il fondatore della Chiesa a tradire Cristo per ben tre volte?“.

Fonte: www.illibraio.it


“C’è molta speranza (ma nessuna per noi)”: il nuovo romanzo di Nicola H. Cosentino


Scrittore e critico letterario classe 1991, Nicola H. Cosentino – collaboratore dell’inserto La Lettura del Corriere della Sera e già vincitore del Premio Brancati Giovani 2018 con il romanzo Vita e morte delle aragoste (Voland, 2017), dopo Le tracce fantasma (minimum fax, 2022) torna in libreria con il romanzo C’è molta speranza (ma nessuna per noi), pubblicato da Guanda.

Il protagonista del nuovo libro di Cosentino, H, non ne può più del pessimismo che lo circonda, e nemmeno del proprio: approdato a Milano dalla provincia calabrese, ha dedicato gli ultimi anni a scrivere un saggio sulla fine del mondo, ma la Storia – tra guerre, pandemie e disastri vari – gli ha offerto troppo materiale, tanto da rendere il suo lavoro superato. Decide allora di cambiare rotta, e concentrarsi su tutt’altro: i desideri

C’è molta speranza (ma nessuna per noi) si pone come “un inventario delle piccole cose quotidiane, in grado di cogliere l’essenza di quei momenti apparentemente trascurabili che, a pensarci bene, ci fanno vivere davvero”. Come “un romanzo che oscilla tra il personal essay, l’inchiesta e il pamphlet“. Al centro c’è un giovane uomo che ambisce non tanto a concretizzare i propri obiettivi (trovare un lavoro stabile, una casa più grande, scrivere un buon libro…) quanto a poterseli permettere.

copertina di C'è molta speranza (ma nessuna per noi)

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Uomo del suo tempo

Perché lo so, chi sono. Maschio, italiano, trentadue anni, 186 cm per 70 kg, superficiale e profondissimo, individualista e generosissimo, a proprio agio con la definizione di «uomo del suo tempo» soprattutto se per «suo» s’intende «di un altro» – uomo del tempo di Banksy, per esempio, o di Sally Rooney, di Jannik Sinner, di Taylor Swift; un tempo che per ora è il secondo decennio del 2000, cuore o galleria del cosiddetto Antropocene, ma tra poco sarà il conto alla rovescia per l’apocalisse. Professione: «scrittore» dice di sé arrossendo, perché l’empireo della scrittura-e-basta si erge su una decina di cieli diversi, e perciò dice anche: «critico letterario, giornalista, correttore di bozze, editor, standista, scout, bookstagrammer, ghostwriter, copywriter, revisore di traduzioni, marchettaro, consigliere a titolo gratuito, modello delle mani che sfogliano i libri, risolutore encomiabile di cornici concentriche, interprete turnista del celebre aforisma di Joseph Conrad ‘Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo…’ eccetera, moderatore, relatore, sognatore». Tutto contemporaneamente, disperatamente. Ha una madre, un padre, una compagna, un fratello, l’automobile nera più sporca di Milano, una casa in affitto col prezzo bloccato all’era pre-Covid, tre piante – monstera, sansevieria, pothos – in perenne stato di calamità, un aneddoto eccellente con cui vince ogni gara di figure di merda e una friggitrice ad aria grazie alla quale inganna un’alimentazione fortemente limitata da una tendenza alla ipercolesterolemia.
Ah, e da qualche parte conserva la mappa per un avvenire luminoso (che comincia quando, esattamente?).

Grazie al cazzo, dottore

«Forse, perché questo avvenire cominci» ha osservato il mio psicologo, «deve riconsiderare il suo rapporto con la letteratura. Ringraziare i libri per ciò che le hanno dato e porli sotto una nuova luce. Smettere di usarli come freccia, e iniziare a farne un arco. Capisce cosa intendo?»
«Che devo smettere di scrivere? Che devo trovarmi un lavoro vero?»
«Non sarei così drastico, H. Però… Non sempre quello che vogliamo, o meglio, la forma in cui lo vogliamo, è quello che ci rende felici. Ha mai pensato di fare letteratura insegnando letteratura? A scuola?»
«Sì, certo. Sarebbe molto bello.»
Lui mi ha guardato con un sorriso che intendeva mettere un punto alla questione. «E allora ha trovato un nuovo modo di canalizzare la sua vocazione.»
«Eh, magari, dottore. Non posso.»
«Lei crede di non potere. Ma può. Si sente in ritardo, si sente colpevole. Ma non lo è. Provi a dirsi: lo desidero e me lo merito. Provi a dirsi: non sono un impostore.»
«Ma lo sarei, se provassi a insegnare lettere.»
«Perché? È preparato, empatico, giovane. Ha a cuore la materia. Ha voglia di riscatto. Le serve un lavoro stabile. Perché vuole continuare a mettere degli ostacoli fra lei e la realizzazione dei suoi sogni?»
«Per un motivo semplice, dottore.»
«Che sarebbe?»
«Io sono laureato in Scienze Politiche.»

E poi 

E poi, dopo gli studi, ho trovato impiego presso l’apocalisse. Non nel senso che sono diventato un profeta, o il Cavaliere della carestia, ma più semplicemente che ho dedicato i migliori anni della mia giovinezza a pensare alla fine del mondo, intesa prima come rappresentazione e poi come realtà in divenire. Di Apocalisse a poco a poco ho già detto, provo a spiegare meglio il resto, con l’aiuto di due istantanee dall’ultimo decennio, riportate in ordine non cronologico.

The End is the Beginning is the End 

La prima mi ritrae affacciato alla finestra di casa, a Milano, all’alba di un giorno di inizio aprile del 2020. Sto rispondendo alle domande di un conduttore radiofonico in qualità di esperto di « letteratura dell’allarme », cioè di romanzi distopici e post-apocalittici. Il solo che abbiano trovato, suppongo. L’intervista dura quindici minuti. Fra le poche domande che il conduttore mi pone, quella d’esordio è, ovviamente: «Ci spiega che cos’è una distopia?»
La so. Il termine «distopia» si deve alla combinazione, pare a opera del filosofo John Stuart Mill, del prefisso dis, che segnala qualcosa di negativo e malfunzionante, con la parola topos, luogo. Opportunamente traslitterati, dis e topos derivano entrambi dal greco antico, e aiutano Mill a rovesciare, per la prima volta nella storia, il concetto di «utopia». Una distopia è, quindi, il contrario di un paradiso, lo scenario peggiore possibile o, come ha scritto Arrigo Colombo, «il modello di una società perversa». E nei romanzi viene spesso utilizzata come dispositivo d’allarme, un bengala che avverta il lettore di un pericolo in avvicinamento.
«E siamo stati avvertiti, di questa pandemia?» mi chiede lo speaker. «Qualche romanzo l’aveva prevista?»
Il quesito, esplicito, ne contiene un altro, implicito: Se sì, come andrà a finire? Guardo l’incrocio sotto casa, il semaforo giallo che lampeggia a vuoto. Riflesso nel vetro della finestra c’è il nostro tavolo da pranzo, e sul tavolo da pranzo il pc di Alzata Con Pugno, che a breve si sveglierà, compirà il solito percorso in venti passi dal letto al bagno, dal bagno alla cucina e dalla cucina a questo tavolo, dove, vestita da sirena della quarantena – busto da donna-là-fuori, leggings e infradito da donna-qua-dentro –, si metterà gli auricolari e farà pazientemente il suo nella gestione dell’emergenza per l’azienda in cui lavora.
«No» ammetto. «Nessun romanzo lo aveva previsto.»
Qualche minuto più tardi l’intervista finisce e parte, non a caso, The End is the Beginning is the End degli Smashing Pumpkins. Rocco ha messo la sveglia alle cinque per sentirmi, e mentre Billy Corgan canta «We can watch the world devoured in its pain» pensa bene di scrivermi – senza entrare nel merito del discorso, perché il merito del discorso è la morte: «Orgoglioso di te. E pure di me. Mai ascoltato una trasmissione tanto noiosa così a lungo».

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it


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