“Dopo le fiamme”: Aramburu e i racconti del dolore

di Francesca Cingoli | 28.05.2019

I racconti di “Dopo le fiamme” di Fernando Aramburu, autore di “Patria”, romanzo vincitore del Premio Strega Europeo 2018, appartengono alla storia dei Paesi Baschi e dell’Eta, così come a tutte le guerre che sono fatte di persone e non di politica, di candele accese nella notte come preghiera e non di grandi proclami, di dolore vero e non di strategia. In questa umanità emergono le figure di donne, "madonne" del dolore, vittime insieme ai mariti morti, ai figli in galera, o a quelli ancora piccoli, che devono essere protetti dalle notizie e dai ricordi più atroci… - L'approfondimento


“Mia figlia in piedi. Doversi stupire per una cosa così è già una disgrazia, e, tuttavia, mi sembrava di assistere a un miracolo. Lei si appoggiò sulle stampelle. Sentii una fitta dentro vedendo la sua fragilità, le sue mani magre e senza forza”.

La disgrazia dei Paesi Baschi spaccati dalla guerra è tutta in questa immagine: lo smarrimento di un padre al quale restituiscono una figlia spezzata, una quotidianità difficile da ricostruire, impossibile da recuperare uguale. Un’amarezza che scandisce come un battito di cuore ogni azione. “Triste”. Era una mattina come tante, di fronte a quel bancomat, quando un’esplosione ha fermato tutto, e ha ridisegnato i contorni di una vita.

I racconti di Dopo le fiamme di Fernando Aramburu (Guanda, traduzione di Elisa Tramontin), autore di Patria, romanzo di culto vincitore del Premio Strega Europeo 2018, appartengono alla storia dei Paesi Baschi e dell’Eta, così come a tutte le guerre, che sono fatte di persone e non di politica, di candele accese nella notte come preghiera e non di grandi proclami, di dolore vero e non di strategia. Sono fatte di disperazioni piccole per i titoli dei giornali, ma profondissime per gli animi, cicatrici che non rimarginano, traumi che restano silenziosi e poi riesplodono con potenza.

La guerra di Fernando Aramburu è la sala di un cinema dove si ha paura a entrare, perché lì davanti si è vissuto il dramma, rimasto impresso negli occhi di un bambino diventato un adulto spaventato e schivo. La guerra sono suoni, che non se ne vanno più via dalla testa. 

“Una cosa che non posso scordare è il fischio delle pallottole. Non finiva mai. Pensavo: Dio mio, che finisca, ormai, l’avete ucciso, che volete di più?”.

Agli uomini e alle donne della sua terra Aramburu guarda con compassione e vicinanza, riportando nei suoi racconti storie molteplici, tutte diverse, unite in un dramma che è stato dramma di tutti e assuefatte a un senso strisciante di pericolo che definisce le giornate, e le relazioni.

Perché la guerra che Dopo le fiamme racconta si combatte tra vicini, tra amici, tra compagni di ospedale, tra donne al mercato: il nemico è un vigile urbano spagnolo, e con lui la moglie, è un povero vecchio che un giorno viene visto parlare alla guardia civil, e questa leggerezza lo condanna a morte, marchiato di collaborazionismo, è il vicino del piano di sopra che mette a rischio tutto il palazzo per fare l’assessore, e bisognerebbe fare una colletta per mandarlo via.

“Non è giusto! Il pericolo ce lo fanno correre a tutti noi che di politica non ci interessiamo!”.

In questa umanità emergono le figure di donne, “madonne” del dolore, vittime insieme ai mariti morti, ai figli in galera, o a quelli ancora piccoli, che devono essere protetti dalle notizie e dai ricordi più atroci. 

Madonne che fanno visita ai figli nelle stanzette delle carceri (“Mi sembra che l’altro carcere era meglio”), e alzano la voce per potersi fermare qualche minuto in più, mamme che piangono sulle bruciature di una bella trapunta nuova, stesa ad asciugare e rovinata da una bottiglia incendiaria, mogli che accudiscono i mariti in ospedale e si fanno la permanente per incontrare un presidente che ha in agenda appuntamenti più importanti della visita ai feriti. 

Sopra a tutte loro, una donna, Toñi, madre e moglie distrutta dal dolore che esibisce il lutto come sfida a quelli freddi e incapaci di comprensione, così come a quelli che festeggiano un assassinio come fosse una loro vittoria.

“Tutti dovevano vederlo: il suo dolore imperterrito, il suo dolore alto come un lampione in mezzo alla strada”. 

Commuove e ferisce Fernando Aramburu con i suoi racconti, perché il dolore e la violenza feriscono e commuovono quando sono fatti vivere più vicino, quando sono resi possibili, quando entrano nelle mura di una casa normale, quando colpiscono gente comune. Infine, e non c’è nulla di più spaventoso, quando diventano qualcosa di noto e riconoscibile, di ordinario, che non fa notizia.

“«Non vieni?» le chiese il marito

«A far che?» le rispose lei seccamente. «Questo spettacolo lo conosco a memoria»”.

Fonte: www.illibraio.it


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