La Climate fiction, detta anche cli-fi, è un genere in cui rientrano tutte le opere (letterarie, ma anche cinematografiche e seriali) che esplorano le conseguenze dei cambiamenti climatici. Dunque a metà tra la fantascienza e la distopia, per la tendenza a rappresentare scenari tragici e post-apocalittici; ma, allo stesso tempo, si configura come una sorta di realismo ipotetico, per le finalità politiche e civili con cui racconta una situazione davanti alla quale non possiamo più chiudere gli occhi... - L’approfondimento
La Climate fiction, detta anche cli-fi, è un genere coniato dall’ex giornalista e insegnante di inglese Dan Bloom a metà degli anni 2000, per indicare la narrativa che esplora le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Per Bloom tutto è cominciato dopo la lettura del romanzo L’ultima spiaggia di Nevil Shute, in cui viene presentato un orribile scenario post-apocalittico all’indomani della terza guerra mondiale, dove il mondo sta per essere travolto da una mortale nube radioattiva. Qualcuno forse conoscerà il libro per gli adattamenti cinematografici, il primo risalente al 1959 e il secondo al 2000 o, addirittura, per la trasmissione radiofonica della BBC. Come racconta Lit Hub, Bloom lesse per la prima volta L’ultima spiaggia quando era ancora al liceo e ne rimase sconvolto per giorni, tanto da non riuscire a dormire la notte.
Lo stesso sconvolgimento lo provò anni dopo, quando s’imbatté, per caso, in un articolo dell’ambientalista britannico James Lovelock che parlava di una popolazione terrestre selvaggiamente decimata a causa dei problemi climatici. La catastrofe preannunciata era prevista non tra centinaia di anni, ma entro la fine di questo secolo. Allora, la paura di Bloom si trasformò nell’urgenza di comunicare a tutti la gravità dei problemi causati dal cambiamento climatico: ma come sensibilizzare le persone a un tema che sembrava non interessare veramente nessuno, o quasi? Iniziò a pensare che non avrebbe avuto senso fare propaganda, scrivere articoli, portare dati e numeri che testimoniassero quanto fosse critica la situazione: l’unico modo per coinvolgere la gente erano le storie.
Bloom però non era uno scrittore e non avrebbe mai potuto scrivere un romanzo che fosse capace di scuotere le coscienze, proprio come Sulla spiaggia aveva fatto con lui tempo prima. Decise allora di inventare un nuovo genere letterario che raggruppasse tutti i testi che riguardavano il cambiamento climatico: nacque così il cli-fi, che si distingue dall’eco-fiction perché prende in considerazione solo il problema specifico del riscaldamento globale.
Ci sono, secondo Bloom, ottimi esempi di narrativa cli-fi, tra cui Far North di Marcel Theroux, Solar di Ian McEwan, Odds Against Tomorrow di Nathaniel Rich, libri che riescono a restituire l’importanza del tema ambientale, senza diventare manifesti di propaganda. Una buona storia, infatti, deve avere il potenziale di attrarre non solo gli attivisti del clima, ma anche e soprattutto chi non è sensibile alla questione.
Sono passati diversi anni dalla definizione di Bloom e in effetti la cli-fi sta diventando sempre più popolare. Non solo perché in fondo potrebbe essere collocata a metà tra la fantascienza e la letteratura distopica, due generi che, specialmente nell’ultimo periodo, godono di grande successo, ma anche perché la questione ambientale, per quanto ci sia ancora qualcuno che continui a negarlo, non può più essere ignorata. È inevitabile per le storie ambientate nel futuro fare i conti con le conseguenze del cambiamento climatico.
Lo sapevano già gli scrittori Jules Verne e J. G. Ballard. Quest’ultimo, con il suo Il mondo sommerso, potrebbe essere considerato il padre della moderna cli-fi, a cui possono essere associati autori come Karl Taro Greenfeld, T. C. Boyle, Paolo Bacigalupi, Sarah Crossan, Jeff Vandermeer e Karen Traviss, e libri come La strada (Einaudi) di Cormac McCarthy, o la trilogia Maddaddam di Margaret Atwood (composta da L’ultimo degli uomini, L’anno del diluvio e L’altro inizio, tutti pubblicati da Ponte alle Grazie), di cui è già previsto l’adattamento seriale.
Anche diversi giornalisti se ne stanno occupando: oltre a Dan Bloom, che continua a essere attivo sul suo sito Cli-Fi Report, Amy Brady sul Chicago Review of Books gestisce Burning Worlds, una rubrica mensile che mette in evidenza il meglio della nuova narrativa cli-fi. Molti siti, tra cui il New Yorker, Lit Hub, Bookriot e L’Espresso, hanno provveduto a stilare liste di libri appartenenti al genere. La maggior parte dei titoli appartiene al mondo anglosassone. In Italia non è ancora così radicato, anche se ci sono pochi – ma significativi – esempi che vale la pena citare. Primo tra tutti Qualcosa, la fuori di Bruno Arpaia, pubblicato da Guanda e già opzionato per diventare una serie tv. Il romanzo è ambientato in un periodo imprecisato tra il 2070 e il 2080, in cui migliaia di persone partono da un’Italia quasi completamente desertificata per raggiungere la Scandinavia, diventata, insieme agli altri paesi del Nord Europa, l’unico territorio dove il clima è adatto all’insediamento umano. I migranti, cercando scampo da una morte per fame e per sete, sono costretti a pagare profumatamente per avere l’aiuto di guide, esploratori e sentinelle che permettano loro di affrontare il viaggio e di imbarcarsi su una nave che li porterà verso la salvezza in Svezia.
In un articolo di RivistaMicron, Arpaia confessa che parlare di questi argomenti in Italia è maledettamente difficile e aggiunge che “la cli-fi ci offre l’opportunità di sapere di più sul cambiamento climatico attivando la parte emozionale di noi stessi. ‘Vivere’ attraverso un romanzo l’innalzamento del livello del mare a New York, oppure partecipare con i protagonisti di un racconto a una tragica migrazione climatica in una Germania desertificata, ci colpisce dritto al cuore e, grazie all’empatia con i personaggi, ci immerge nelle complesse questioni scientifiche che sono alla base degli avvenimenti narrati […]. Mentre leggiamo, sentiamo la polvere, la fame, la sete come se (sono queste le due paroline magiche di ogni narrazione, come se) fossimo noi a viverle”.
Anche La festa nera (Chiarelettere) di Violetta Bellocchio, che da molti è stato considerato appartenente al “canone strano” della weird fiction italiana, presenta diversi elementi che potrebbero farlo rientrare nel genere della cli-fi: la vicenda si svolge in un’Italia distopica e nasce proprio come “un reportage dal futuro” in cui tre ragazzi, Misha, Nicola e Ali documentano, attraverso una macchina da presa, il mondo in cui sopravvivono.
Ma più della letteratura, lo scenario di un futuro devastato dai cambiamenti climatici è l’arena preferita di molte narrazioni cinematografiche e seriali. Basti pensare al mondo sferzato dalle tempeste di polvere della prima parte di Interstellar, a Wall-E, o perfino a certi episodi di Game of Thrones. Per non parlare dell’ultimo episodio della terza stagione di Black Mirror, Odio universale, in cui le api, insetti considerati fondamentali per l’equilibrio naturale del pianeta, si sono estinte e sono state sostituite da copie-robot in grado di replicarne ogni azione. O ancora Okja, film scritto e diretto da Bong Joon-ho, prodotto da Netflix e presentato al Festival di Cannes 2017, nel quale vediamo una bambina coreana affezionarsi a un gigantesco maiale creato in laboratorio per arginare l’inquinamento ambientale causato dall’industria della carne.
In particolare questi ultimi due titoli hanno un elemento che sconvolge ancora di più lo spettatore, perché presentano un futuro prossimo non così diverso dal presente che stiamo vivendo. Un futuro di fantasia, certo, ma altamente probabile, e per questo realistico. Ecco allora che la cli-fi si configura come una sorta di realismo ipotetico e infatti, come da tradizione (neo)realista, nasce proprio con una finalità politica e civile, per raccontare e affrontare con una certa serietà una situazione che riguarda tutti e davanti alla quale non possiamo più chiudere gli occhi.
Fonte: www.illibraio.it