"Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore" è il nuovo libro dello scrittore, giornalista e traduttore italiano Bruno Arpaia, che offre al pubblico un ritratto vivido e intimo dello scrittore cileno Luis Sepúlveda, suo amico e collega... - Su ilLibraio.it un estratto
Scrittore, traduttore di letteratura spagnola e giornalista napoletano classe 1957, Bruno Arpaia dedica il suo nuovo libro, Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore (Guanda), all’amico e collega Luis Sepúlveda, l’amatissimo scrittore cileno autore di testi come Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Patagonia express, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani).
Nato in Cile nel 1949, Luis Sepúlveda è morto di Covid a 70 anni, nell’aprile del 2020, dopo un lungo periodo terapia intensiva.
I lettori che hanno amato i suoi libri in fondo già lo sanno: Sepúlveda era un ribelle e un sognatore. Imprigionato dopo il golpe di Pinochet, era stato torturato e poi costretto all’esilio; viveva in Spagna, con la moglie Carmen, e non ha mai smesso di dedicarsi alla scrittura e all’attivismo, credendo fermamente nella necessità di un impegno concreto per cambiare la società e le sue storture.
Il ritratto offerto da Bruno Arpaia in Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore restituisce al lettore un ritratto più completo dello scrittore cileno, un racconto a tutto tondo che non si ferma alla superfice del personaggio ma ne rivela gli aspetti intimi e privati, raccontando la vita e le opere, le piccole manie e i passatempi, la scrittura e lo spirito agguerrito di un’uomo tutto d’un pezzo. A pochi mesi dalla scomparsa dell’amico e collega, Arpaia evoca il ricordo vivido e intenso di un uomo dimenticabile.
Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto dal libro:
Alto, imponente, le mani rudi, gli avambracci segnati da rigonfiamenti e cicatrici, vestito quasi completamente di nero, lo sguardo distante e perfino un po’ cupo: Luis Sepúlveda aveva qualche anno più di me e confesso che all’inizio mi metteva un po’ di soggezione. Di primo acchito, la sua immagine umbratile non sembrava quadrare con quella degli espansivi e chiassosi scrittori spagnoli e latinoamericani che di solito incontravo alla Semana Negra di Gijón, nelle Asturie.
Di lui, qualcuno mi aveva detto che era cileno, che dopo il golpe di Pinochet era stato arrestato, torturato e infine esiliato. E che adesso viveva in Germania. Forse quelle poche informazioni bastavano a spiegare il suo atteggiamento in apparenza ritroso, riservato, così anomalo lì alla Semana Negra, il festival letterario più pazzo del mondo, creato dallo scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II. Non che quelle sue peripezie mi impressionassero più di tanto: alcuni degli scrittori che partecipavano al festival avevano avuto vite anche più avventurose. Per dire, c’erano ex agenti dei servizi segreti sovietici o insigni professori di greco che avevano dirottato un aereo per andare a Cuba, come Daniel Chavarría…
Però per me il Cile e l’11 settembre del 1973 erano una ferita aperta; a sedici anni, l’attacco alla Moneda e la morte di Allende avevano radicalmente cambiato la direzione della mia vita, piegandola come un ferro rovente. Perciò Luis Sepúlveda mi interessava, eccome. Tanto più che, presentandomelo, il mio amico Paco Taibo mi aveva detto sorridendo che era «il bestsellerista del gruppo». Un gruppo in cui non mancavano già allora grandi e famosi scrittori come Manuel Vázquez Montalbán o Leonardo Padura, ma Sepúlveda, con Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, aveva avuto un successo incomparabile in Francia; e in Italia, dove era stato portato da Luigi Brioschi, l’editore della Guanda, stava ricevendo un’accoglienza altrettanto calorosa. Immagino che Paco l’avesse conosciuto attraverso Anne-Marie Métailié, la loro editrice francese. E l’aveva invitato a Gijón.
Io, invece, ero lì più per amicizia che per meriti letterari. Doveva essere il 1993 o il 1994. All’epoca, avevo pubblicato sul serio un unico romanzo, perciò, per darmi scherzosamente un tono, mi aggiravo tra gli stand e le bancarelle dei librai con un badge su cui avevo scritto «Gabriel García Márquez». I pochi, pochissimi che lo notavano, mi guardavano prima stupiti e poi sorridevano. Era quello che volevo: prendere e prendermi un po’ in giro. Ma la cosa più importante era un’altra; non era la prima volta che partecipavo a quel festival e, con mia grande sorpresa, vi avevo sempre trovato un’atmosfera molto diversa da quella che, magari sbagliando, avvertivo nell’ambiente letterario italiano (che del resto conoscevo e frequentavo poco): niente risentimenti, invidie, camarille, gelosie, ma un fraterno spirito di collaborazione, di generosità reciproca tra gli scrittori. Erano tutti amici, ma amici sul serio, anche se facevano lo stesso mestiere e avrebbero potuto sentirsi in concorrenza. E ogni amico ne portava altri, e il cerchio si allargava, e ciascuno sapeva di avere, in caso di necessità, un tetto e una persona solidale a Parigi, a Milano, a Città del Messico, all’Avana, a Brema, a Buenos Aires o a Sofia. Così, già in quei primi anni, anch’io avevo conosciuto decine di persone di tutto il mondo, avevo imparato ad amare scrittori che non avevo letto, avevo affinato, grazie a ore e ore di discussioni, le mie idee sulla letteratura e i miei strumenti del mestiere. E allora, in quell’allegro e creativo caos della Semana Negra, Luis Sepúlveda, il nuovo arrivato, era un semplice invitato, come molti statunitensi che partecipavano alle loro presentazioni e poi se ne stavano per i fatti propri, oppure faceva parte a pieno titolo di quella comunità di affetti, emozioni, solidarietà, sostegno, stima letteraria e umana?
Bastarono poche ore per risolvere i miei dubbi. Non l’avevo ancora letto, ma andai incuriosito alla presentazione del suo libro, sotto un tendone rumoroso e affollato. Chi chiacchierava, chi beveva, chi leggeva, chi ascoltava musica… Ma quando Sepúlveda prese la parola, calò un silenzio denso. Non sapevo ancora che tipo di scrittore fosse, ma era certamente un grandissimo affabulatore. Quegli abiti scuri, quell’espressione cupa erano soltanto un travestimento. Sempre in bilico sulla retorica senza mai cadervi, era così bravo a raccontare che a volte si lasciava trasportare dall’entusiasmo e infiocchettava le sue storie di particolari non completamente credibili. Ma lo si perdonava subito, perché la grazia, l’ironia, la passione, la tenerezza, la forza – anche politica – di quei racconti sapevano conquistare chiunque. Se scriveva anche in quel modo meraviglioso… Comprai il suo libro, El viejo…, nell’elegante edizione di Tusquets, e un po’ più tardi, a un tavolino del dehors dell’Hotel Don Manuel, dove alloggiavamo tutti, mi avvicinai per farglielo firmare. Lui quasi non mi guardò e scrisse: «Para Bruno Arpaia Gabriel García Márquez». Accidenti: sembrava così spaesato, così distante, e invece aveva notato tutto. Senza darlo a vedere, il suo sguardo e la sua intelligenza non perdevano neanche un dettaglio di ciò che lo circondava. Poi, inaspettatamente, si alzò e mi strinse nel primo di quei suoi calorosi abbracci stritolanti che mi avrebbero felicemente accompagnato per quasi trent’anni.
«Gracias, Luis» gli dissi.
«Chiamami Lucho» mi rispose. «È così che mi chiamano gli amici. E io e te, a pelle, saremo grandi amici.»
(Continua in libreria…)
Fonte: www.illibraio.it