Intervista a Gianni Biondillo autore di Per cosa si uccide ISBN:8882466523
Gianni Biondillo, architetto con il vizio della scrittura, ha scelto di ambientare il suo primo romanzo a Milano. Per cosa si uccide è un tributo di riconoscenza dello scrittore verso la propria città, che viene descritta in tutte le sue molteplici sfaccettature. Per le vie di Milano si muove con passo incerto l’ispettore Ferraro, singolare poliziotto dalla dubbia vocazione e dalle ancor più dubbie capacità. Il malcapitato Ferraro si trova coinvolto, nell’arco di un solo anno, in indagini ad alto rischio e in gravi fatti di sangue. Quarto Oggiaro, quartiere popolare di Milano, riserva sorprese a ogni angolo: attività losche, omicidi, violenze di ogni genere, che indurranno l’ispettore a compiere dolorose riflessioni sulla natura umana e a interrogarsi ripetutamente sul suo ruolo. Abbiamo discusso con l’autore del suo romanzo d’esordio.
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D. Per cosa si uccide è un romanzo poliziesco, ma anche un vivido affresco della “sua” Milano. Fin dalle prime pagine lei offre al lettore uno spaccato significativo della periferia milanese con la descrizione di una giornata tipo a Quarto Oggiaro, dove la soffocante calura estiva agisce come una miccia pronta a innescare la miscela esplosiva di rabbia e noia. Quanto è importante l’ambientazione nel suo giallo? Ha una funzione puramente accessoria oppure si è servito del genere poliziesco come pretesto per poter raccontare Milano?
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R. Sì, è la città la vera protagonista del romanzo. Nel mio libro non viene risolto un unico caso, ma ci sono quattro casi in corrispondenza delle differenti stagioni. Per cosa si uccide è concepito infatti come un romanzo della città nel suo svolgersi in tutte le articolazioni spazio-temporali. Nell’arco dell’anno solare cambiano i personaggi, cambiano le storie e i crimini, ma Milano resta sempre in primo piano con le sue vie, con le situazioni e gli ambienti più caratteristici. I personaggi del quartiere di Quarto Oggiaro, simbolo della periferia italiana, potranno forse apparire inverosimili a qualche lettore, ma sono molto più veri di quanto si possa immaginare. La mia è una testimonianza diretta perché in quel quartiere sono nato e cresciuto. Poiché gran parte della letteratura italiana è nelle mani di una categoria sociale che potremmo definire, senza alcun intento polemico o dispregiativo, “borghese”, credo che ben difficilmente le problematiche del sottoproletariato e degli extracomunitari possano trovare una realistica rappresentazione. Io sono avvantaggiato dal fatto di vivere nell’ambiente che descrivo. Respiro ogni giorno quell’atmosfera.
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D. Il titolo del romanzo allude alle motivazioni che inducono gli uomini a trasformarsi in assassini. Sul finire della seconda parte l’ispettore Ferraro riflette a lungo su questo tema. È questa la chiave di lettura più corretta per interpretare al meglio il suo romanzo? È la complessità della natura umana una delle principali molle narrative?
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R. Ho voluto espressamente il titolo Per cosa si uccide perché possiede secondo me una freddezza, una forza, una capacità di aggredire il lettore. È come se io dicessi: “Adesso ti indico tutti i modi più svariati per uccidere”. Certo la componente psicologica in un omicidio è molto importante, ma non bisogna sottovalutare l’aspetto sociale e culturale. Le ragioni per uccidere sono infinite. Non si uccide soltanto, come affermo a un certo punto, per il potere e la prevaricazione. A volte ci sono motivazioni incredibili come dimostra tutta la storia dell’umanità. Da Caino in avanti.
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D. La figura dell’ispettore Ferraro si sottrae per molti versi alle convenzioni del genere. In un giallo ci si aspetta un detective brillante e risoluto, Ferraro si comporta invece come un antieroe, come un poliziotto un po’ sprovveduto che si getta in discutibili avventure galanti e intreccia amicizie pericolose. Com’è nata l’idea?
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R. Ho scelto questa tipologia di detective per ironizzare sugli stereotipi dei romanzi polizieschi. È stato divertente marcare le differenze ed eccedere. Faccio un esempio: tutti gli investigatori sembrano essere accaniti fumatori e raffinati gourmet (da Camilleri a Vázquez Montalbán). Proprio per questo ho voluto che Ferraro fosse una frana in cucina e che prendesse la decisione di smettere di fumare. Peraltro il fatto che Ferraro sia un poliziotto è quasi un caso. L’indagine investigativa mi è parsa un ottimo espediente narrativo per descrivere al lettore un mondo, un popolo. Se avessi parlato di un salumiere o di un venditore di assicurazioni probabilmente la storia sarebbe risultata meno interessante. Ferraro è una persona comune, un inno alla normalità e, se vogliamo, alla banalità: ha rapporti difficili con le donne, prende vistosi abbagli e spesso torna in carreggiata più per istinto che per logica. È protagonista suo malgrado.
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D. Ha qualche modello letterario di riferimento? Forse le opere dei grandi scrittori milanesi? Oppure si ispira ai giallisti italiani, che stanno vivendo una stagione particolarmente felice?
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R. Quando leggo Raymond Chandler non mi pongo la questione se sia o meno un autore noir. Per me è, più semplicemente, uno scrittore americano; e, soprattutto, un grande scrittore. La mia aspirazione più grande, nell’uso della lingua, è che un lettore, aprendo il libro in un qualsiasi punto e leggendo un dialogo a caso, sia in grado di indovinare subito l’identità di chi pronuncia quella determinata battuta. Nei dialoghi c’è tutto il mio desiderio di cogliere la verità e di dare credibilità, spessore, tridimensionalità ai personaggi.
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D. In passato lei ha scritto saggi su Levi, Vittorini, Pasolini. Ha incontrato qualche difficoltà nel passaggio dalla saggistica alla narrativa? Conta di proseguire l’attività di romanziere?
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R. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con la scrittura. In tutte le sue forme. Io sono architetto, e gli architetti hanno l’abitudine di scrivere moltissimo: relazioni e tesine ai tempi della scuola, perizie tecniche e documenti di varia natura nel corso dell’attività professionale. Ho lavorato anche per il cinema e ho scritto dialoghi per le soap opera. Insomma ho una certa confidenza con la scrittura e, anche se dietro c’è un grosso lavoro di rielaborazione, per me scrivere è sicuramente un’attività naturale. Ho sempre voluto essere uno scrittore e faccio l’architetto soltanto per gli imponderabili casi della vita. Che cosa accadrà in futuro è nelle mani del Signore.
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Intervista a cura di Marco Marangon
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Fonte: www.illibraio.it