Giulia Corsalini torna in libreria con "La condizione della memoria" e su ilLibraio.it riflette a partire dalle opere, molto diverse tra loro - anche se legate dai temi -, di due grandi autrici come Simone de Beauvoir e Annie Ernaux. Un'occasione per soffermarsi sui modi in cui la letteratura affronta il tema del lutto
Sono molti, come si sa, i romanzi che trattano di memorie famigliari alla luce (o nel buio) di una perdita; qui vorrei brevemente ricordare due libri nati dalla rielaborazione del lutto per la morte della propria madre: Une mort très douce (Gallimard 1964, trad. it. Einaudi 1966) di Simone de Beauvoir e Une femme (Gallimard 1987, trad. it. L’Orma 2018) di Annie Ernaux, due testi tra loro legati, ma diversi.
Annie Ernaux, in Une femme tratteggia il ritratto della propria madre a partire dalla morte di lei, anzi dalla dichiarazione di quella morte: Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise. Poco più avanti spiega di aver scritto l’incipit a distanza di tre settimane, dopo i giorni del funerale e il primo tempo del lutto; una narrazione dunque precoce, in un momento in cui il dolore non si è ancora fuso con il corso passato della sua vita e l’evento non ha quella distanza che le permetterebbe un’analisi dei ricordi. Una narrazione che s’impone tuttavia come necessaria, poiché non si sente capace di fare altro, se non scrivere di lei. Quanto scriverà tuttavia, dichiara, non sarà una vera storia, dato il carattere di persistenza senza tempo che ha assunto nella sua memoria la vita della madre, ma una serie di immagini; allo stesso tempo non sarà una vicenda privata, perché, in una impostazione teorica che si sta facendo per lei sempre più consapevole, ciò che le interessa è ricondurre i fatti della propria vita, e in particolare qui la verità su sua madre, nel contesto storico- sociale in cui sono accaduti e di cui sono espressione. Infine, pur servendosi di parole, e dunque muovendosi all’interno di una condizione letteraria, spera che quanto scriverà resti al di sotto della letteratura, vale a dire, rifugga dalla finzione, ma anche, credo, rispetti la priorità della vita vera sulla sua rielaborazione artistica, non affidi al lavorio dello stile la progressiva scoperta di quella verità. E così, dopo la narrazione diaristica dei primi giorni del lutto, attraverso delle analessi, per quadri ed eventi strettamente connessi al retroterra storico sociale, l’autrice ricorda l’infanzia della madre in una famiglia contadina, il lavoro di operaia, poi quello di negoziante, il matrimonio, la vedovanza, la malattia, fino a tornare a ricordare la sua morte, in una chiusa in cui l’essere di sua madre e il suo significato quale garanzia di continuità della propria vita, che è quanto dire l’attestazione del senso della vita stessa, vengono riconosciuti come l’ultimo legame, che la morte ha spezzato, con il mondo dal quale l’autrice proviene.
Qualche riga prima di queste che concludono il libro, Annie Ernaux segnala una coincidenza di cui la narrazione in apparenza non rivela altri significati, ossia il fatto che sua madre è morta una settimana prima di Simone de Beauvoir. E’ una concomitanza che la scrittrice richiama anche in un discorso tenuto nel 2000 (per il programma Apostrophes), nel quale meglio si capisce che tale coincidenza assume il valore di segno del ruolo della scrittrice nella sua formazione. In questo stesso saggio Annie Ernaux indica tra i libri importanti, non tanto per la sua idea di sé in rapporto al mondo, come Le deuxième sexe (che ha avuto per lei una portata rivoluzionaria), quanto per l’intensità del racconto, Une mort très douce, ossia il libro che Simone de Beauvoir dedica a sua madre, anche lei a seguito della morte della donna.
La struttura del libro è diversa da quella di Une femme, diversa la scrittura, più fluente e abbandonata (e d’altra parte Annie Ernaux chiarisce nello stesso discorso citato che l’opera di Simone de Beauvoir non è stata per lei un modello di stile), e diverso il tono, a partire dall’incipit, diaristico anch’esso, ma più diffuso (Il 24 ottobre 1963, un giovedì, mi trovavo a Roma…), volendo l’autrice raccontare non il fatto, ma i fatti della morte. In Une mort très douce la rievocazione della malattia della madre e dei suoi ultimi momenti copre infatti la gran parte della narrazione. Vengono così narrati i giorni del ricovero in ospedale della donna già anziana a seguito di una caduta, la scoperta angosciante del tumore, la consunzione del corpo a fronte del resistere della vitalità e dell’attaccamento alla vita, la morte, il funerale; solo in poche pagine la scrittrice rievoca l’infanzia, il matrimonio e gli anni felici della relazione coniugale, poi i tradimenti del padre, infine il difficile rapporto madre-figlia: le intrusioni ingombranti e le ansie religiose della educazione materna che la portarono ad allontanarsi da lei. Per cui la possibilità di assistere la madre nei suoi ultimi giorni finisce per offrirsi alla figlia come una forma di riscatto, un modo per ottenerne il perdono. A partire da questa presa d’atto, la riflessione si approfondisce, va a cogliere le ragioni dello sconvolgimento che ha provocato nella scrittrice la morte della madre, e che, considerata l’età avanzata della defunta e il distacco che c’era già stato tra loro, si è manifestato in lei con una intensità assolutamente imprevedibile; giacché, e questa è la verità che le si rivela, lo strazio è la reazione alla brutalità della morte, a qualsiasi età essa si manifesti. Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo.
Malgrado il confronto inevitabile da parte di Annie Ernaux e la situazione comune, malgrado la volontà di entrambe le scrittrici di tenersi quanto più lontane dall’enfasi e dal patetismo, i due libri sono diversi e rappresentano due modi differenti di dare al compianto un’espressione letteraria; tutto sommato, sebbene Ernaux abbia scritto, in contrasto con le tesi proustiane, che la memoria non fa che confermarle la sua storicità e frammentarietà e non ha dunque nessun potere reale di ridare alla vita la sua assolutezza e permanenza, sembra esserci in lei una maggiore fiducia nella possibilità di una restituzione del passato di quanto Simone de Beauvoir, che ha costruito sulla memoria autobiografica un’opera fondamentale, sembri capace di credere, o intenda fare, nell’urgenza del lutto.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Giulia Corsalini vive a Recanati, dove lavora come docente e critica letteraria.
Nel 2018 ha pubblicato con nottetempo il suo romanzo d’esordio La lettrice di Čechov, che le è valso numerosi premi, tra cui il Premio Letterario internazionale Mondello e il SuperMondello.
La condizione della memoria è il primo romanzo per Guanda.
La nuova uscita catapulta lettrici e lettori in un borgo del centro Italia dove le tracce di un tempo sono racchiuse nei bei palazzi derelitti, nei giardini in penombra e nelle strade assolate ormai disertate. Qui la madre di Anna ha vissuto quando era bambina. Qui torna un’estate, per trascorrere con la figlia una vacanza nella casa che era stata della loro famiglia. Mentre sale la grande scala di pietra logora, la stessa che saliva da piccola, un’intera esistenza, che in quel momento le pare smisurata e breve come un soffio, riaffiora con i suoi drammi sepolti. Ad accogliere le due donne c’è Luca, proprietario dell’antico palazzo di fronte, che con la sua esistenza disordinata fa balenare una diversa possibilità di futuro, un principio da cui ripartire…
Nel romanzo dell’autrice il tempo sospeso del borgo diventa uno spazio mitico in cui il passato si mescola con l’immaginazione e con un presente che conduce a un esito imprevisto. In questa esplorazione profonda della memoria e dei legami umani che sopravvivono al tempo riaffiora l’eco delle pagine di Sebald, la scrittura evoca i bagliori luminosi delle poesie di Brodskij.
Fonte: www.illibraio.it