“Ma tu chi sei”: Bruno Arpaia davanti alla malattia della madre e all’età che avanza

di Redazione Il Libraio | 06.02.2023

Nell'autobiografico "Ma tu chi sei", Bruno Arpaia alterna il racconto della malattia della madre, affetta da Alzheimer, le confessioni dell'autore sullo spaesamento in un’epoca di Covid e di guerra, le riflessioni sull’identità e sul timore della morte, e infine gli excursus sul funzionamento del cervello e della memoria - Su ilLibraio.it un estratto


Un uomo alle prese con l’età che avanza, con il futuro che si restringe sempre più e con l’Alzheimer della madre ultranovantenne…

È così che potremmo descrivere il protagonista di Ma tu chi sei (Guanda), il nuovo libro dello scrittore e traduttore Bruno Arpaia che, come diceva di lui Luis Sepúlveda (1949-2020), “è uno di quelli che affrontano l’arte e la letteratura con l’unica ambizione di essere coerenti con la vita e con l’epoca che gli è toccato vivere”.

Dopo testi del calibro de L’angelo della storia (Premio Selezione Campiello 2001), Il passato davanti a noi (Premio Napoli e Premio Letterario Giovanni Comisso 2006), Per una sinistra reazionaria, L’energia del vuoto (finalista al Premio Strega 2011 e vincitore del Premio Merck Serono), L’avventura di scrivere romanzi (con Javier Cercas), Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatoreRaccontare, resistere, tutti editi da Guanda, Arpaia torna con un testo in cui il protagonista non è altri che lo stesso autore.

Nel volume si alternano il racconto della malattia della madre, dai primi sintomi al difficile trasloco in una residenza per anziani e alla perdita del passato, le confessioni autobiografiche sullo spaesamento in un’epoca di Covid e di guerra, le riflessioni sull’identità e sul timore della morte, e infine gli excursus sul funzionamento del cervello e della memoria, sulla malleabilità e l’illusorietà dei ricordi, sulle ricerche sull’Alzheimer.

Il filo portante della narrazione è costituito dalle visite alla madre nella residenza, con le sue domande ripetute in maniera ossessiva, i suoi rapporti con le altre anziane, i suoi smarrimenti, le sue ostinazioni e i suoi capricci quasi infantili, le crescenti difficoltà a riconoscere i nipoti o il figlio stesso, le dolorose lacerazioni prodotte in entrambi dalla malattia.

E Bruno Arpaia tiene insieme tutti questi elementi per costruire un unico racconto intimo e teso, non privo di una soffusa e rassegnata ironia, in cui convergono molti dei dèmoni che ci assillano e dei tentativi che facciamo per sconfiggerli…

Copertina del libro Ma tu chi sei di Bruno Arpaia

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Trent’anni da vedova: mai un cinema, un teatro, una cena fuori, mai una gita, mai un viaggio, se non, pochissime volte, per venire da noi a Milano e stare un po’ con l’unico figlio e l’unico nipote che ha. E adesso che ci penso, quando mio padre è morto lei aveva solo cinquantanove anni, sei in meno di quanti ne ho io adesso. Avrebbe avuto ancora una vita davanti, e invece. È vissuta in punta di piedi, spostandosi quasi senza far rumore, cercando ossessivamente di non dare fastidio, sola in un appartamento in affitto di centoquaranta metri quadrati, senza più riscaldamento, che andava lentamente ma inesorabilmente in pezzi. Per anni l’ho incitata in tutti i modi a cambiare casa, a trasferirsi a Milano, vicino a me, oppure a Napoli, vicino alle sorelle e ai fratelli. Manco a parlarne. Argomento tabù. Soltanto quando è morta d’infarto una delle sue sorelle, zia Enza, sembrava scossa e più disposta a prendere in considerazione l’idea. Ma è stato un lampo, un guizzo di paura, forse; poi, come al solito, non se n’è fatto nulla. L’argomento è stato di nuovo bandito. L’ultima volta che ci ho provato, qualche anno fa, avevo trovato un bilocale nel nostro palazzo a Milano, a un affitto abbordabile. Approfittando della circostanza che era venuta a trovarci (la penultima volta che l’ha fatto), abbiamo aspettato che si sentisse a suo agio a casa nostra, e dopo il pranzo domenicale in famiglia, con tutta la cautela possibile, glielo abbiamo detto.

«Sarebbe bello, pensa… Ci vedremmo tutti i giorni…»

Come se le avessimo proposto un’azione ignobile, come se l’avessimo profondamente offesa. Non ha voluto nemmeno vedere l’appartamento, anzi è scoppiata a piangere, ha cominciato a disperarsi, a singhiozzare.

«Non posso, non posso… Voi non capite, voi non capite…»

«Ma perché? Costa anche poco, è un’occasione imperdibile…»

«Ho detto che non posso…» ha mormorato tra i sussulti del pianto. «Voi non capite, voi non capite…»

Era il suo ritornello. Chissà cosa c’era da capire. Non ce l’ha mai spiegato.

Erano tante le cose che non capivamo. Qualche anno prima, un’altra volta che era venuta da noi a Milano, non aveva voluto che telefonassi a suo fratello Nino per chiedergli di andarla a prendere la sera al treno a Napoli; in quel modo avrebbe potuto dormire da lui e tornare con la Circumvesuviana a Ottaviano il giorno dopo, con comodo. Non c’era stato verso.

«Assolutamente no» aveva detto, mentre, di nuovo, il rossore le saliva alle guance, la voce le si strozzava e negli occhi si affacciava qualche lacrima. Tornavamo da una gita in macchina, lei era seduta dietro. Riuscivo a vederle una parte del viso dallo specchietto retrovisore.

«Cosa c’è di male a chiamare zio Nino? Se non può venire a prenderti, ce lo dice…»

«Voi non capite, voi non capite…»

«Ma cosa dobbiamo capire? Qual è il problema? Basta dirlo…»

«Oh, insomma, non sono fatti vostri.»

Fine delle trasmissioni. Come se Iaia e io fossimo dei completi estranei, un paio di persone incontrate per strada. Caso chiuso, faccia scura e mutismo totale.

Quella volta ci avevamo impiegato alcuni anni, ma alla fine, chissà come, messa alle strette, aveva confessato; o meglio, gliel’avevamo tirato di bocca con le pinze. Avevamo pensato a chissà quale segreto, a qualche ignominiosa situazione coniugale, e invece: il fratello, allora settantacinquenne, russava e non dormiva nella stanza con la moglie. Passare la notte là avrebbe significato dare disturbo, costringerli a dormire di nuovo insieme.

«Tutto qui? E perché non si poteva dire?»

«Voi non capite, voi non capite…»

No, effettivamente non capivamo.

Ma no, non dovevate, mamma mia… Tutti quei soldi… Non dovevate proprio, e no.

Appena dopo Natale, il giorno di Santo Stefano, scendo a trovarla insieme a mio figlio. Mia madre, per fortuna, riconosce anche lui, sebbene non ne ricordi mai il nome, che pure è lo stesso di mio padre, di suo marito. Le portiamo una banalissima scatola di cioccolatini, e la sua reazione, ormai prevedibile, è questa, tra la gratitudine e la stizza, nonostante sia stata molto contenta di rivedere dopo tanto tempo il nipote.

Mia madre non ha mai amato i regali, ha fatto sempre mille storie quando ne ha ricevuto qualcuno, fino a metterti perfino a disagio, a farti quasi incazzare perché sembrava che non lo apprezzasse, ma adesso si è aggiunta, o si è aggravata, l’ossessione dei soldi.

Ma quanto avete speso, perché l’avete fatto? Non dovevate…

Tempo prima, proprio il suo rapporto con il denaro, divenuto sempre più assillante per lei con il passare degli anni, mi aveva fatto definitivamente capire che era venuto il momento, che non poteva più vivere da sola: era stato quando aveva cominciato a confondere lire ed euro, a non sapere più quanto aveva in banca, sparando cifre assurde per eccesso o per difetto, a preoccuparsi e non dormire la notte per una bolletta di sedici euro o perché bisognava cambiare una lampadina in camera da letto.

Ma dai, nonna, dice mio figlio. Siamo contenti di farti un regalo…

E adesso dove dormite?

Da Marcello, mamma, al B&B di Marcello. Insomma, nell’albergo di Marcello… Da Ciccio non c’era posto per me e per Alfredo. Te lo ricordi Marcello, il figlio dell’avvocato? Veniva a scuola con me alle elementari…

Sì, come no.

No, non ci credo. Stavolta mente. È altamente improbabile che se lo ricordi. Ma è meglio sorvolare.

E stasera dove mangiate?

Non lo so, da qualche amico, o al ristorante.

Ah.

Fa una faccia strana: dev’essere per i soldi che spenderemo in trattoria.

E dove dormite?

Da Marcello.

Ah.

All’improvviso mi ricordo delle dentiere. Devo controllargliele. Ne aveva già persa una in Toscana in estate, anzi: era venuta addirittura senza, mentre continuava a insistere contro ogni evidenza di averla in bocca. Al suo ritorno, la dentiera era poi stata ritrovata dopo giorni di ricerche dalle ragazze della residenza in un sacchetto nascosto in bagno. Adesso la perde o la dimentica di continuo e bisogna verificare che la porti e che, almeno in teoria, se la tolga e se la lavi ogni sera.

Mamma, ce l’hai la dentiera?

Certo.

Posso vedere?

Sbuffa, ma apre la bocca. Come prevedevo, le manca quella inferiore.

No, mamma, te ne manca una.

Ma quando mai? Ce l’ho, non vedi?

No, mamma, non ce l’hai. Hai quella di sopra, ma non quella di sotto. Sai dove l’hai messa?

Ti ho detto che ce l’ho.

Si infuria e schizza in bagno, a una velocità incredibile per i suoi novantadue anni. La seguo davanti allo specchio. Apre la bocca, guarda: nonostante l’unico dente che si affaccia dalla gengiva inferiore, continua a ripetere, visibilmente alterata, che ce l’ha. Toglie quella di sopra e me la mostra.

Visto che ce l’ho?

No, mamma. Questa è quella di sopra. Te ne manca una. Ti ricordi dove l’hai messa?

Ma quando mai? Ne ho sempre avuta una sola. E basta, lasciami in pace, lasciami in pace…

Adesso alza la voce e piange. A dirotto, senza controllo. Io sospiro. Anzi, sbuffo.

Tu non capisci…

Dai, mamma, su…

Nonna, calmati, non è il caso di agitarsi, cerca di tranquillizzarla mio figlio.

Dentro di me, si scatena una battaglia all’ultimo sangue tra la rabbia e la pena, tra la tentazione di alzare la voce e quella di scappare. Vince la compassione e cerco di mantenermi calmo.

Vediamo se la troviamo. Altrimenti come fai a mangiare?

Mentre io rovisto in bagno, dov’era stata trovata l’altra volta, lei, sempre più agitata, apre e chiude cassetti, fruga negli armadi, tira fuori alla rinfusa foglietti ingialliti, matasse di filo ingarbugliate, pile scariche, santini e madonne, penne esaurite, ditali, borsellini vuoti, calendari vecchi, agende di anni lontani, resoconti bancari di secoli prima, ninnoli e soprammobili infilati negli angoli, mettendo sempre più scompiglio tra la caterva di cose che conserva inutilmente.

Aspetta, dai, così è peggio. Lascia guardare me.

Si scosta, rassegnata e turbata, ancora in lacrime. Apro un cassetto, un altro, e imprevedibilmente trovo subito la dentiera, nuda e abbandonata in mezzo a quelle cianfrusaglie.

Eccola qua. Visto che ce l’avevi?

Gliela lavo in bagno e lei se la mette in bocca. Impassibile.

E dove dormite stasera?

Da Marcello, mamma. Abbiamo preso una stanza da lui. Te lo ricordi, Marcello?

No, non me lo ricordo.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it


Commenti