"Anche nella Svizzera italiana, dove vivo, la pandemia ha mutato abitudini che sembravano inestirpabili...". Su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore Andrea Fazioli
Notizie dall’esilio
Era una sera d’estate. Avevo sei o sette anni e stavo giocando a nascondino in un paese di montagna. Ricordo che mi nascosi in un luogo buio. Mentre ascoltavo in lontananza le voci degli altri bambini, mi venne uno strano pensiero: e se rimanessi qui? Il tempo passerebbe – fantasticavo – finché loro smetterebbero di cercarmi. Niente risate, corse, litigi. Nessun “liberi tutti!” consolatorio. All’inizio assaporai la solitudine, poi mi spaventai, immaginandomi diviso per sempre dalla piazza luminosa e dalla bambina di cui ero segretamente (molto segretamente) innamorato.
Oggi mi torna in mente quella remota sensazione di esilio. Anche nella Svizzera italiana, dove vivo, la pandemia ha mutato abitudini che sembravano inestirpabili. Il Ticino fra l’altro è il Cantone dove il virus ha colpito più duramente. In questi giorni stiamo lavorando per tornare alla normalità, ma se penso all’Andrea che poteva girare per il mondo e stringere la mano agli amici, mi pare un uomo diverso. L’Andrea recluso non è né migliore, né peggiore: è un altro. “La distanza che ci separa da uno straniero è la distanza che ci separa da noi stessi”, scriveva l’autore francese Edmond Jabès. Secondo la filosofa Maria Zambrano, che visse gran parte della sua vita in esilio dalla Spagna franchista, l’esiliato è “colui che giunge, a forza di vivere sino in fondo la sua condizione, a essere questo sconosciuto che c’è in ogni uomo e che il poeta e l’artista non riescono, se non molto di rado, a scoprire”.
Anche le attività più banali assumono un valore diverso. Le mie figlie in questi giorni giocano con una bambina della loro età che abita proprio accanto a noi. Si siedono a distanza di cinque o sei metri e s’impartiscono a vicenda lezioni di magia. Hanno appena letto Harry Potter, quindi si dedicano alla fabbricazione di bacchette magiche. È in corso una produzione in serie, a partire da utensili domestici, pezzi di legno, oggetti vagamente lunghi e appuntiti… se lascio una matita sul tavolo, sono sicuro di ritrovarmela mezz’ora dopo sotto forma di bacchetta magica. Credo che tutti questi incantesimi, inconsciamente, vogliano colmare quell’abisso, quella lontananza che rende un po’ malinconici anche i giochi più allegri. “È strano” – mi ha detto mia figlia. – “Possiamo litigare, ma non possiamo toccarci”.
Siamo isolati e nello stesso tempo siamo vicini. Ma in parte non lo eravamo già prima del coronavirus? Oggi sentiamo più acutamente la nostalgia di ciò che sembrava normale, e forse ci rendiamo conto che la condizione umana è proprio quella che descrisse Daniel Defoe all’inizio del 1700: come Robinson Crusoe, viviamo nella nostra isola, con il necessario per la sopravvivenza… finché un giorno scopriremo con terrore un’orma sulla spiaggia. L’altro non arriva da fuori. Era già lì, nel nostro territorio, senza che noi lo sapessimo: una parte segreta del nostro io. Chissà, magari anche l’esilio, anche la ferita della solitudine non sarà inutile, se ci consentirà di scoprire quell’impronta misteriosa, quello straniero che siamo noi stessi e che ci avvicina a tutti gli altri. “A due passi da me, ci sei tu” – diceva Jabès. “A due passi da te, c’è lui. A due passi da lui, c’eravamo noi”.
Fonte: www.illibraio.it