Umberto Bossi è il politico dei gesti: il dito medio, le corna, il pugno e l'avambraccio, la pernacchia, o la famosa canottiera sfoggiata su una spiaggia della Sardegna nel 1994, e più volte esibita in luoghi pubblici. Marco Belpoliti si chiede perché il capo leghista esibisca comportamenti tanto provocatori, rompendo una tradizione di stile misurato dei politici italiani della Prima Repubblica. Perché Bossi è un «vitellone », come Alberto, il personaggio del celeberrimo film di Fellini. Il leader leghista, futuro capo di partito e ministro della Repubblica, non ha neanche terminato gli studi né ha rivelato particolari attitudini, salvo poi diventare, nelle opinioni dei seguaci ed elettori, e persino uomini di cultura, un genio della politica. Com'è stata possibile una tale trasformazione?
L'autore rilegge Bossi attraverso i suoi gesti, esplorandone l'origine e il significato, mostrando come il suo eloquio e i suoi atteggiamenti abbiano profondamente condizionato il comportamento morale dei politici e degli italiani in genere. Da queste pagine viene fuori più un cantante rock che un capo di partito, un predicatore scomposto che non un sottile tessitore: un ragazzotto di paese che arriva in Parlamento e incarna quello che Sciascia chiamava «l'eterno fascismo italiano», acquattato nel grembo stesso della provincia, al Nord come al Sud, e di cui la nostra cultura è impregnata; fa parte di noi stessi, per quanto ce ne distanziamo, lo rinneghiamo, cerchiamo di strapparcelo di dosso. Attraverso la «fenomenologia di un capo», Belpoliti ci fa ancora una volta il racconto dell'identità cruda del Bel Paese.
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